Alle scuole elementari avevo in classe un bambino problematico. Un po’ più grosso degli altri, impacciato nei movimenti, rissoso, lentissimo nell’imparare. Erano anni in cui non ci si curava molto dei bambini problematici: stavano lì. Massimo stette lì un paio d’anni, tra la terza e la quarta, poi sparì, finì da qualche altra parte, non saprei dire dove, e non ricordo che nessuno se lo chiese, tolse semplicemente l’incomodo, e la vita in classe, rimosso quell’ostacolo, continuò più spedita di prima. In quel libro bellissimo che è Nati due volte, Pontiggia racconta dell’atmosfera di solidarietà tra i compagni di scuola che si crea attorno a una ragazza “che soffre di un disturbo” (la ragazza non riesce ad articolare bene le parole, non le esce la voce). Ma la ragazza è un’adolescente con lunghi capelli biondi, il suo difetto è quasi impercettibile, i compagni sono ragazzi ormai grandi, che fanno a gara – non importa se per bontà di cuore o per sfoggio di virtù – per mostrarsi gentili e comprensivi. Massimo era diverso: brutto, aggressivo, sgraziato, tonto; e noi otto-novenni non avevamo nessuna vocazione alla gentilezza. Non vederlo più fu un piacere per tutti (l’ho ritrovato anni dopo, per caso, in treno, accompagnato dal padre anziano, imbambolato davanti al finestrino, già senile anche lui, e solo allora ho capito che Massimo era handicappato: di handicap si parlava spesso, in classe e fuori, ma non avevamo mai fatto il collegamento, pensavamo che la formula fosse quella che aveva pronunciato un giorno la maestra, “molto caratteriale”).
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