L’ultima svolta cruciale nel rapporto tra la nostra cultura e i fatti estetici risale forse agli anni 60. Sfumava allora la modernità antagonista, neutralizzata dalla sua riduzione a oggetto didattico o mediatico. Dopo aver provato ad addomesticare gli sperimentalismi eversivi d’inizio secolo, il romanzo tentava un suicidio rituale. In quel periodo molti narratori abbandonarono il racconto per la pura descrizione, come se il mondo insieme mutevolissimo e immodificabile delle società affluenti, con i suoi mostri burocratici e tecnologici, non potesse essere rappresentato in una trama scandita secondo ritmi umani. Su questo scacco ha riflettuto tempestivamente Frank Kermode in Il senso della fine, una raccolta di conferenze del 1965 uscita di recente per il Saggiatore. Il sottotitolo annuncia “Studi sulla teoria del romanzo”, ma è ingannevole. Come ricordava E. M. Forster, che più del citatissimo Wallace Stevens è il vero patrono di questo libro, “il romanzo è fradicio d’umanità”, e chi pretende di affrontare l’uno senza parlare dell’altra si ritrova in mano appena “un mazzetto di parole”: quello che nel decennio 60 stringevano compiaciuti gli autori degli antiromanzi e gli strutturalisti.
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