Trent’anni dopo la sua morte, le riflessioni di uno dei più grandi filosofi della tradizione anglosassone. Lo scetticismo per il razionalismo, la morale dell’individualità e il senso del conservatorismo, cioè il modo giusto di abituarsi al mutamento
Trent’anni fa, in un paesino del Dorset, il pastore locale commemorò con laconica parsimonia un signore che, ottantanovenne, aveva appena lasciato questa terra. Non si dilungò in dettagli sulla sua vita, che del resto conosceva poco. L’officiante sapeva che quest’uomo era nato a Chelsfield, un paesino nel Kent ora incorporato nella grande conurbazione londinese, aveva studiato a Cambridge e poi aveva fatto il professore universitario; infine si era ritirato in campagna con l’età della pensione. Pare amasse molto le donne, ma la notizia non avrebbe ben figurato in un’omelia funebre. Di sicuro, si era sposato tre volte. A un certo punto, il curato fece un sospiro. Soppesò le parole, la circostanza per lui era nuova. “A quanto pare, tra noi viveva un grande uomo”. Il ministro di Dio aveva letto i giornali. Per il Daily Telegraph, il 19 dicembre 1990, se n’era andato “il più grande filosofo della politica della tradizione anglosassone dai tempi di Mill, se non di Burke”. Il Guardian parlava del defunto come “forse il più originale filosofo accademico di questo secolo”. L’Independent ne paragonava la scrittura, leggera e profonda assieme, ai saggi di Montaigne.
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