Ugo Nespolo, “Tal Farlow”, 1921-1998

il foglio del weekend

Gli artisti del repentino addio

Ugo Nespolo

Dalla chitarra di Tal Farlow ai pennelli di Duchamp fino alla penna di Rimbaud. La rivolta del cambiamento

“Insieme a te non ci sto più 
guardo le nuvole lassù”

Caterina Caselli
“Insieme A Te Non Ci Sto Più”

  

Quella sera soffiava un vento quasi caldo che, lasciato il mare, s’infilava in strade e avenue in toni bizzarri come per invitare gli ansiosi e spettinati dreamers with empty hands come me – così dice la canzone di Vernon Duke – a un poco di ottimismo e a qualche risata. In quei lontani anni Settanta, perduti a New York, ci si poteva sovente sentire rosi dal dubbio di capire che senso avesse sopportare il peso di vivere la vita del nuovo ombelico mondiale dell’arte. Ci si chiedeva anche se quella fatica fosse davvero poi così inviting e tanto indispensabile e quanto in fondo fosse attraente. Giù a West Broadway e a Soho l’assalto banale e fatalmente possessivo delle merci e del consumismo turistico era ancora lontano. Artisti e gallerie di rilievo come quelle di Leo Castelli-Sonnabend erano lì nei loro storici edifici carichi di quel fascino che nel giro di poco si sarebbe raggelato nei funerari, grigi e disumani spazi dei loft smisurati di Chelsea e dintorni, fortezze stranianti di severi manager-mercanti dallo scrupolo esile ma dal potere totale e dittatoriale.

 

Il tepore della serata autunnale invitava a muoversi per una lunga camminata attraverso il Village fino al 126 West della Tredicesima strada verso un piccolo, economico ristorante dove il jazz era di casa.

 

Come sempre la musica non mancava. Chitarra elettrica e contrabbasso quasi celati nell’ombra di un angolo tra i piccoli tavoli di gente intenta a mangiare chiacchierando rumorosa e indifferente.

 

L’uomo della chitarra, camicia a scacchi con una vecchia Gibson L4 al collo per me – incredulo – aveva il valore di una vera apparizione. Non poteva essere che lui, ne ero certo, l’uomo del lungo addio, Tal Farlow un mito che aveva reso autentico e possibile il desiderio di andare altrove.

 

A un passo da me, con quelle sue fulminee manone che gli erano valso il soprannome di Octopus, il cui stile di indiscusso maestro, genio eclettico a suo agio nel vocabolario armonico, ritmico e melodico non aveva pari con i prestigiatori della tastiera dai tempi di Charlie Christian. Una stella così brillante che il critico Stuart Nicholson paragonava per prodezza e velocità a quella di Roger Bannon, l’uomo che per primo aveva corso nel 1929 il miglio in meno di quattro minuti.

 

Tal Farlow aveva suonato con i più grandi nomi del firmamento jazz, da Red Norvo a Buddy De Franco, da Artie Shaw a George Shearing e Charlie Mingus, ma scomparve nel 1958, ancor giovane, all’apice della sua straordinaria carriera, per ritirarsi a Sea Bright, paesino sul mare nello stato del New Jersey, nella contea di Monmouth, per dedicarsi serenamente a dipingere i nomi sulle fiancate o a poppa delle barche altrui.

 

Eccoci precipitati dell’enigmatico mondo degli Addii, l’intricato universo governato da una non scritta teoria del disamore, la strada dell’abbandono che non pretende giustificazioni logiche, motivazioni razionali, addii – insomma – che non si sentono frutto di avvilenti disillusioni esplicite ma abbandoni perlopiù non spiegabili e proprio per questo più affascinanti. Il magistrale libro di Carola Barbero, “Addio. Piccola grammatica dei congedi amorosi”, si rivela una guida preziosa che travalica il pur vasto ambito della fine dell’amore di coppia, ma può dilatare l’esperienza sino all’incontro con il disamore per altri oggetti amati come le attitudini intellettuali, i successi professionali conseguiti, notorietà e fama, per procedere sereni nel cammino verso un’amnesia cercata e voluta, un’eclissi repentina e sovente tutt’altro che malinconica. 

 

“Secondo il tuo bisogno fedelmente… meditazione praticherai e solitudine quotidianament”. Così l’autore di “Jules et Jim”, Pierre Roché, predice a Victor, alias Rrose Sélavy, alias Marcel Duchamp, che ribatte a tamburo battente: “Non bisogna sconfinare – bisogna scegliere in anticipo ciò che si vuole – non voglio legarmi – non voglio abitudini – voglio cambiare – voglio esser solo con me stesso più di un giorno su due – devo riflettere”. Nasce la raffinata storia dell’occultamento di un amore, la sostituzione di una vocazione tanto potente come la pittura, un viaggio calmo verso opere senza opera, fino a riuscire a scrivere la storia di un famoso long goodbye. Duchamp cancella con metodo e ironia sopraffina la fisicità ruvida della tela e la frenesia del colore e, mentre se la spassa con gli enigmi di R. Mutt e del suo “Marchand du Sel”, si eclissa per scomparire muto tra i meandri dell’intricata, rigorosa geometria bianca e nera della scacchiera, con passo felpato e la classe di un enigmatico Grande Maestro

 

Un disamore tutto intellettuale per quella pittura retinica e persino olfattiva (l’odore fastidioso della trementina), l’abbandono dichiarato degli originari canoni futuristi e cubisteggianti finiti come dissolti, sin dal 1923, verso gli enigmi, le intuizioni, gli artifizi delle lente, cruente battaglie scacchistiche combattute ai più alti livelli.

 

La lotta che pare contare è ora solo quella di occupare gli spazi centrali della scacchiera e sviluppare poi indisturbati i propri pezzi nelle retrovie per esser così padroni del campo. Duchamp conosce bene le strategie geniali di Alekhine e Grünfeld e ne fa ampio uso. I segni della sua fuga dalla strada maestra non paiono però così segretamente nascosti e non servono strumenti particolari per scovarli. Duchamp come Benjamin – anima gemella, vagabondi esiliati dal mondo dell’arte – adorano miniaturizzare, rendere portatile, facilmente trasportabile e decifrabile il lavoro artistico. La sua “Boîte-en-Valise” è appunto una valigia, un micromuseo da viaggio, l’intera storia di una vita artistica resa gioco e giocattolo, sempre pronta alla fuga, pronta ai lunghi viaggi sugli enormi fumanti transatlantici o sugli ultimi eleganti treni che possono ancora solcare, luminosi nella notte, in coppia forse solo con la valigia-scrittoio di Paul Morand, le nere strade ferrate di un’Europa ormai sventrata dalla guerra.

 

Con quella sua voce nasale e rauca lo scontroso Nobel Bob Dylan dichiarò apertamente trattarsi di “uno dei più grandi songwriter di questo decennio”, mentre David Bowie, in un’intervista al Village Voice, arrivò a dire del suo disco “Grace” come di uno dei dieci che avrebbe voluto con sé in un’isola deserta. Jeff Buckley pubblicò quell’album il 23 agosto 1994,  un capolavoro che includeva tre perle luminose come “Lilac Wine” di Nina Simone, Corpus Christi Carol di Benjamin Britten e Hallelujah di Leonard Cohen. Disco definito “capolavoro romantico e, anche per questo, subito disco d’oro e di platino in più di una nazione. 

 

Jeff era nato nel 1966 nell’Orange County, California, figlio di un raffinato cantautore, Tim Buckley, morto a soli ventotto anni per overdose dopo avere abbandonato la moglie prima della nascita di Jeff, alla ricerca dei soliti successo e fortuna a New York.  Un’infanzia vissuta in un’autentica, ricca atmosfera musicale, con la madre pianista e violoncellista classica e il patrigno che lo spinse all’ascolto di artisti quali Queen, Led Zeppelin, Jimi Hendrix, The Who e i Pink Floyd.

 

Fin dall’età di cinque anni imbraccia la chitarra elettrica e pochi anni dopo decide di diventare musicista. Come riporta la sua biografia – ricevette molto presto in dono la sua prima chitarra elettrica, un’imitazione di colore nero di una Gibson Les Paul.

 

Diplomatosi alla Loara High School in quegli anni suonò, lasciandosi ispirare dal grande Al Di Meola, in gruppi di giovanissimi jazzisti. Se ne va presto a Hollywood dove studia al Guitar Institute of Technology, attratto sempre però – come dichiara – dalle armonie che venivano da Ravel, Ellington e Bartok. Trasferitosi subito dopo a New York si esibisce regolarmente in diversi locali di Manhattan con un repertorio che può spaziare dal folk al rock, dal blues al jazz. Clive Davis della Columbia Records produce il suo primo disco che sarà pubblicato il 23 ottobre 1993 con il titolo “Live at Sin-é”. Il successo fu quasi immediato e  i tour si presentarono incalzanti, dall’Australia al Regno Unito, dalla Scandinavia alla Germania alla Francia. Dopo un lungo tour europeo dove a Parigi registra il suo ep “Live from the Bataclan” e corona il sogno di calcare il palco dell’Olympia, riparte per un lungo tour dal Giappone all’Australia e alla Nuova Zelanda.

 

Siamo al febbraio 1997. Si esibisce con la sua band a New York per il decimo anniversario della Knitting Factory, sotto lo sguardo ammirato di Lou Reed e, a fine mese, dopo aver registrato un reading del poema di Edgar Allan Poe “Ulalume”, per l’album “Closed on Account of Rabies”, si trasferisce a Memphis, Tennessee, dove s’impegna a suonare e provare sino al 26 maggio i brani per il nuovo disco.

 

La sera del 29 maggio 1997 accade un fatto ancor oggi totalmente inspiegato ed inspiegabile. Jeff viaggia col suo autista Keith Foti verso gli studi di registrazione percorrendo la riva del Wolf River, un affluente del Mississippi. Chiede all’autista di fermarsi e sceso dal furgone s’avvia tranquillo verso il fiume completamente vestito e con indosso gli stivali, prende a camminare cantando il ritornello di “Whole Lotta Love” dei Led Zeppelin fin verso il centro del fiume per scomparire inspiegabilmente e per sempre.

 

Fin troppo facile pensare Jeff in balia di droghe o alcool, il suo corpo ritrovato impigliato tra i rami di un albero sotto il ponte di Beale Street, la strada più importante di Memphis, rivelava, come scrive il referto autoptico, che prima della morte egli fosse in “a good frame of mind”. Difficile anche pensare all’incidente fortuito, entrare in acqua totalmente vestito può dare la misura dell’intenzionalità esplicita di dissolversi in quelle acque scure.

 

Non può non venire in mente lo studio di Olivia Laing “Gita al fiume”, a proposito di Virginia Woolf, dove parafrasando il titolo del famoso “Gita al Faro” racconta di come per Virginia l’acqua rappresentasse un modo per “far scivolare via l’io superficiale” e serviva per “tuffarsi in un regno più profondo, senza nome”. Per motivi diversi e certo più espliciti Virginia Woolf il 28 marzo 1941 camminò senza fermarsi incontro alla sua fine nelle acque del fiume Ouse nei pressi di Rodmell. Voglio davvero credere che Jeff non fosse all’oscuro di quella storia.

 

“Me ne andavo con i pugni nelle tasche sfondate / anche il mio paltò diventava ideale / Andavo sotto il cielo, Musa! ed ero il tuo fedele / oh, lá lá! Quanti amori splendidi ho sognato!”. Questo scriveva Arthur Rimbaud in “Ma Bohème”, il poeta che qualcuno definirà “una delle personalità dall’influenza più distruttiva e liberatoria della cultura del Ventesimo secolo”, divenendo nei pochi anni di vita il prototipo dell’artista ribelle o – come diceva Albert Camus – il “poeta della rivolta, e il massimo”. Nato nel 1854 a Charleville nelle Ardenne, da subito è uno studente modello capace di pubblicare, a soli quindici anni, i primi versi tra l’ammirazione del preside del liceo che di lui dirà: “In questa testa non germina niente di ordinario”, mentre l’opinione di Madame Perette sarà quella di prevedere per lui “una brutta fine”.

 

Lo studioso inglese Graham Robb ricorda come non sarà difficile imputare al suo esplosivo talento e a quel folle, irriverente stile di vita gran parte di quanto sarà sostanza nella cultura a venire, simbolismo, surrealismo, la cultura beat, le stesse rivolte studentesche in ideologhi come Guy Debord, la musica rock, le conquiste gay e la consuetudine nell’uso delle droghe.

 

Impossibile ricostruire la trama delle sue precoci continue, frenetiche fughe attraverso l’Europa e l’Inghilterra. Lo si trova a sedici anni volontario tra i Franchi tiratori della Comune a Parigi e alla quale dedica tre poesie. L’anno seguente scrive il poemetto “Le Bateau ivre” che spedisce al già celebre Paul Verlaine, e mentre sarà l’inizio della sua fama letteraria lo sarà anche della tempestosa relazione tra i due poeti che durerà sino al 1873, in un turbine di amore-disamore, gesti disperati vicinanza ed abbandono. Una miriade di mestieri improbabili e presto lasciati in una furia viaggiatrice, da capitale a capitale, che ancor oggi qualcuno associa il suo vagare disperato a quelli di Bruce Chatwin o di Kurt Kobain. Il fatto però più straordinario e in qualche modo non così facilmente spiegabile è il totale improvviso abbandono, il ripudio silenzioso della poesia alla soglia dei vent’anni, un’autentica messa in pratica di una mai scritta teoria del disamore, lo sfrenato bisogno di andare altrove, perdersi in terre ed azioni violente ed antitetiche a qualsiasi figura o azione intellettuale.

 

Le sue “Lettres du Voyant”, i “Derniers Vers”, “Une Saison en Enfer”, “Illumination”, son giochi da alchimista del verbo. “L’influenza più spettacolare Rimbaud l’ha esercitata su scrittori, musicisti e artisti che hanno considerato la sua vita parte essenziale dell’opera: Pablo Picasso, André Breton, Jean Cocteau, Allen Ginsberg, Bob Dylan, Jim Morrison”.

 

Un turbine di mestieri, al circo Loisset, precettore, marinaio, agente commerciale e dieci anni in Abissinia a praticare il contrabbando di armi, e forse persino di schiavi. Cairo, Harar, Ogaden, Gibuti, Gedda, Yemen in un susseguirsi di inspiegabili attività che lo porteranno a rispondere all’amico Delahaye che gli chiede se scrive ancora: “Io non penso più a questo”. Il 27 maggio 1891, all’ospedale Conception di Marsiglia, gli fu amputata la gamba destra per un tumore al ginocchio. Il 20 ottobre Rimbaud compì trentasette anni, il 10 novembre, alle dieci di mattina morì. “Ho visto arcipelaghi siderali! e isole / Dai cieli deliranti aperti al vogatore: in queste notti immense tu vai in esilio e dormi”.

 

Ragioni totalmente dissimili capaci di generare disamore, oblio e fuga ma sono sempre inviti ad andare altrove che ben conosce chi ha da fare con gli stretti passaggi dei sistemi dell’arte, con il cinismo incurabile dell’Artworld tutto.

 

Per questo quando si può si gioca a sfoderare l’arma dell’ironia convinti in fondo anche che “chi se ne va che male fa?”. 

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