Tra gioco e lettera d'amore, “Orlando” di Virginia Woolf è pura felicità letteraria
Nelle prime righe, tra una piattonata e l’altra, un accenno al grande colpo di scena che verrà: Orlando, indiscutibilmente nato maschio e scelto da Elisabetta I come suo cortigiano prediletto, dopo un sonno di una settimana si risveglia femmina
Dev’essere l’effetto dello sbianchettamento letterario. La cancellazione di quel che potrebbe turbare lo studente universitario americano. O le categorie coinvolte, scarse di autoironia e di senso che chiameremo, in mancanza di formule migliori, “dello stare al mondo”. Il mondo stracolmo di offese, possibili o reali, che tiene in serbo batoste assortite verso chiunque. Non fa sconti, e non ha in programma di farne a breve. Dev’essere l’effetto dello sbianchettamento letterario, unito alla quantità esagerata di autofiction (certe cose non le chiediamo neanche agli amici, temendo risposte troppo dettagliate, figuriamoci se vogliamo saperle da scrittori – e da scrittrici, per carità, in questo campo non si stanno facendo mancare nulla – privi di immaginazione). Sta di fatto che oggi le prime righe di “Orlando”, scritto da Virginia Woolf negli anni venti del secolo scorso, procurano momenti sublimi di felicità letteraria.
Eccole qua: “Egli – perché dubbio non v’era sul suo sesso, per quanto la foggia di quei tempi alquanto lo dissimulasse – stava prendendo a piattonate la testa di un moro, che dondolava appesa alle travi del soffitto”. Per le “piattonate” va reso merito alla traduttrice Alessandra Scalero: qualsiasi cosa fosse nell’originale, ha reso benissimo l’idea. Quanto alla testa del moro, è proprio la testa di un moro, tramandata di padre in figlio. “Il padre di Orlando, o forse il nonno, l’aveva spiccata dal busto del gigantesco Infedele che gli si era parato davanti al chiaro di luna, nelle barbare distese africane”.
Di ritorno in Inghilterra, il trofeo serve da esercizio per il giovanotto di casa. Virginia Woolf non ha scritto solo “Mrs Dalloway” (che lo scrittore Francesco Pacifico ha eletto a suo manuale di educazione sentimentale). Né solo “Gita al faro”, dove al faro non vanno mai, se ne parla tantissimo e intanto lavorano ai ferri uno scalferotto marrone. Non ha solo teorizzato “la stanza tutta per sé” che le scrittrici dovrebbero avere per dare sfogo al loro talento (aggiungeva, da ragazza realista, “denaro e cibo adeguato”). Né ha soltanto pronunciato l’incauta frase, “Attorno al 1910, la natura umana è cambiata” – per via della psicoanalisi e del flusso di coscienza, e giù picconate al romanzo ottocentesco. Ha scritto anche il magnifico “Orlando”, contrario a tutti i dettami del modernismo e quindi camuffato con l’etichetta “biografia”.
Nelle prime righe, tra una piattonata e l’altra, un accenno al grande colpo di scena che verrà: Orlando, indiscutibilmente nato maschio e scelto da Elisabetta I come suo cortigiano prediletto, dopo un sonno di una settimana si risveglia femmina. Parte con una carovana di zingari e trova che lì le donne se la spassano più che alla corte inglese. Siamo ormai nel Settecento. La vita avventurosa di Orlando dura fino al Novecento, quando torna a Londra, tiene salotto letterario e sfonda come poeta. Nei primi tentativi, a 17 anni, ingenuamente guardava dalla finestra per cercare la sfumatura di verde utile. Prima di capire che “tra la natura e la letteratura regna una naturale antipatia: mettetele una vicina all’altra e si prenderanno per i capelli”. Mrs Woolf scrive “Orlando” per gioco e per lettera d’amore. A Vita Sackville-West, e alla città di Londra. Magnifiche le feste di Carnevale sul Tamigi ghiacciato, alla corte di Re Giacomo. Il fiume viene spazzato e ornato con pergole, labirinti, viali, padiglioni aperti al pubblico. Il ghiaccio è così trasparente che si vedono le anguille, e così spesso da reggere grandi falò di cedro e di quercia.