L'infinito mare di Ulisse
L’Odissea di Nikos Kazantzakis. Un’opera-mondo che svela la Grecia nella sua duplice radice di occidente e oriente
Lo maggior corno della fiamma antica è Ulisse. Nessuno, uno e centomila sono in lui. I mille occhi dolci nella sua mente fanno stellato il cielo della terra. Le sue pupille squillano nel petto di chi ne ascolta la storia, e ancora – e poi ancora – se ne vuol sapere di lui che di nome fa Nessuno. E l’Odissea di Nikos Kazantzakis, il cretese – sfacciatamente intitolata Odissea – giunge al culmine di una moltitudine di voci per arrivare a noi con lingua lunga di vampa che parla al cuore.
Un personaggio di molti autori, Ulisse. E’ quello dei tragici greci e così di Dante Alighieri. La giornata di Leopold Bloom nell’Ulysses di James Joyce è la sua. Suo – in transito persiano, per voce di Shahrazad nientemeno – è il viaggio di Sind-bad il Marinaio. Ben oltre i coevi di Omero, con l’elmo calato sul becco, è lui quello di Paperodissea, la parodia di Walt Disney. Ed eccolo ancora, assai telegenico, nello sceneggiato Rai. Quello con Irene Papas nel ruolo di Penelope. Lingua lunga, dunque, c’è in Ulisse: il Tessitore d’inganni, l’Inaddolcibile di cuore indomito, l’abile Carpentiere che fece il Cavallo di legno per prendersi Troia.
Ulisse dunque gitta voce di fuori, e dice. E un sortilegio perciò è Odissea, la prosecuzione che ne ha fatto Nikos Kazantzakis (Iraklio di Creta 1883, Freiburg di Brisgovia 1953). Un libro di 33.333 versi in 24 canti che si legge ad alta voce come mai altra creazione letteraria può pensare di impegnare il lettore, in un recitar cantando di vertigine e viva rappresentazione di mente spinosa, carne ferma e forti ossa. Monologando, allora. E “piano piano la nenia sommessa e ammaliante/scorre dal flauto dell’Arciere alle rapite orecchie”. Com’è proprio di un pezzo di teatro in piazza, al chiarore di un cortile o in una complice rapsodia da far correre via WhatsApp – come farfalle nell’ordito del plenilunio – per tramite di messaggio vocale, leggendo ognuno per come può.
A mezza voce, magari. Tant’è che questo libro di oltre settecento pagine, saldamente impugnato – ben squadernato – chiede la complicità di aedi di strada e di astanti chiamati alla posteggia. E figurarsi cosa può accadere quando se ne accorgeranno i più svegli tra i produttori con questo seguito della trama, perfetto per farne una serie tivù. Ecco, infatti, i biondi barbari, l’imbelle regno di Idomeneo, le pubbliche orge, la splendente Eliopoli; ecco apparire il Fantasma delle Fame. Ecco, quindi, la Grande Cerimoniera madre segreta del Tempo; ecco l’approdo al Polo Sud sul kayak che solca le acque nere della disperazionee – infine, lui che è “lo maggior corno” – eccolo, Ulisse, nell’ultimo balzo verso l’alto: “L’estremo guizzo della fiamma”. E’ lo struggente addio alla vita. Tutte le ombre della sua memoria che vanno incontro a lui: anche il caro cane Argo, e poi il Sole – suo nutrimento, sua guida – che nel vedere l’eroe morire, svanisce a sua volta. Come solo un pensiero può spegnersi.
Gli unici poemi che si leggono nella nostra epoca sono quelli dell’obbligo scolastico, preferibilmente in prosa. Se ne fa parafrasi, non si leggono mai ad alta voce ma l’Odissea di oggi, il seguito di quella di ieri, è anche un inaudito perché ogni sua parola, “nella notte che scende a cosce aperte” – per come canta il Cretese – è forgiata al modo di Omero, nella lingua avuta in eredità da Omero, in una stratificazione di lemmi schierati nei ranghi di decaeptasillabi. Sono vocaboli che, come fossili, riemergono dallo scavo di Kazantzakis durato tredici anni e sette diverse stesure per prendersi agio della contemporaneità.
L’Odissea di Kazantzakis (noto come autore di Zorba il Greco) è un viaggio nelle peripezie della lingua, il racconto delle vicissitudini dell’epos tra le parole morte restituite alla vita e al famoso Re della fantasia. La civiltà che fa da sfondo alla narrazione è la patria remota degli eroi. Greci e troiani non patiscono il gravame etico dei posteri, ahinoi civilizzati. Ulisse non è nell’Inferno dei cristiani e in questi canti dove pure fano capolino Lenin, Zaratustra e Bergson – santi Numi, il caso di dire – non c’è nulla di biblico. Gli Dei che diventano un unico Divino si svelano nel capovolgimento più sanamente pagano perché è l’uomo a rendere dio un Dio, nell’amor fati che pure nutre le ombre dell’Ade. Certo, c’è Cristo, ma in ipostasi, ovvero Il Pescatore gentile; c’è Buddha, che è Il Principe della Terra; c’è anche Don Chisciotte, ossia Il Capitan Uno. Nell’ellisse della fabula ci sono anche i Novantanove nomi di Allah ma non c’è traccia di quel mondo dietro il mondo orchestrato da San Paolo per asservire l’umanità alla morale degli schiavi. E l’uomo, qui – specificatamente il Millevolti, il Milleaffanni, il Milleanime – non è in guerra con il peccato, piuttosto col dolore, il calabrone dall’aculeo giallo.
Poeticamente abita l’uomo, con un bacio si paga qualunque debito e ogni cosa – fosse anche un tozzo di pane da mangiare in piedi – non cerca altro incantesimo che il canto. Lo scandaglio del suono, la phoné che chiama all’ascolto, non compete alla critica letteraria, piuttosto ai teatranti. Tutto canta in quest’opera-mondo che svela la Grecia nella sua duplice radice di Occidente e Oriente. Canta il crepuscolo che svapora l’orizzonte, canta il fiorire del sangue e l’abisso dei sensi, infine, è solo un canto di cui custodi sono i tre perfettissimi spiriti: Tantalo, Prometeo ed Eracle. Sono i padrini di Ulisse e già dalla culla lo segnano affinché sempre sappia far marameo al nostos.
La vera patria è la lingua e l’inquietudine è, appunto, il suo blasone: “La patria mi stava stretta, sentivo oltre le sue rive/altre patrie dagli occhi ridenti, altre anime carnose/tristezze e gioie di ogni sorta, fratelli e sorelle/che sedute sulle rive aspettavano il mio ritorno!”. Ulisse torna a Itaca. Fa quello che deve fare – scanna i Proci che mirano alle grazie di sua moglie – e dopo un meritato bagno d’acqua calda e profumata, senza cercare altro riposo, avvertito il rumoreggiare di una marmaglia in rivolta, la fronteggia, la sconfigge per poi rimuginare altro.
Una storia di ritorno, in tema d’inquietudine e lingua, è quella de La sirena, ossia Lighea, il racconto di Tomasi di Lampedusa. Rosario La Ciura – un senatore del Regno, illustre filologo – consola le pene d’amore di un giovanotto raccontandogli dei suoi giorni passati, quando prepara un esame per la cattedra di letteratura Greca a Pavia, va a studiare una casa sugli scogli di Catania da dove, ogni giorno, prende la barca, cullato dalle onde, ad alta voce. Come chiamata dalla lingua di Omero, una sirena – gocciante mare e desiderio – gli inclina la barca e lo seduce: “Basti dire che in quegli amplessi godevo insieme della più alta forma di voluttà spirituale e di quella elementare, priva di qualsiasi risonanza sociale, che i nostri pastori solitari provano quando sui monti si uniscono alle loro capre; se il paragone ti ripugna è perché non sei in grado di compiere la trasposizione necessaria dal piano bestiale a quello sovrumano, piani, nel mio caso, sovrapposti”.
Quando sul giornale si leggerà del professor La Ciura disperso durante la crociera del Rex si capirà la verità del suo ritorno. Non ha fatto altro che sporgersi sul mare e chiamare la sua sirena e così scampare ai dolori e alla vecchiaia. L’altro poema che richiama alla mente l’Odissea di Kazantzakis è la Terra Desolata di Thomas S. Eliot. E’ la sua antitesi; mentre Eliot risolve i versi in attesa, Kazantzakis li affida all’indeterminazione. Entrambi accolgono nei loro poemi una miriade di voce; Eliot include versi di Dante, Ovidio, brani di Wagner, mentre l’omerico Tiresia è il narratore, ma The Waste Land è preludio, nella vita di Eliot, all’incontro con la fede cristiana, è un’attesa che mantiene la tensione solo in quanto destinata a terminare. Ben più coraggiosa è l’irrequietezza di Kazantzakis, nella sua sicurezza di essere destinazione.
Ulisse che torna sotto il tetto della propria reggia, nella sua isola, non sa stare fermo. L’irrequietezza è la sua destinazione. Avido di conoscenza, sa che questa stessa è anche il più impenetrabile dei veli. Smanioso di sé, ordina ai propri uomini di portare a sé Nausicaa, la dà in sposa a Telemaco e così compie l’impervio dovere degli inappagati. Disbosca una piana irta di querce, recluta una ciurma con cui arma un legno e così – alla morte del proprio padre, Laerte – prende il mare e fa l’unica cosa che sa fare: prendere il largo per non tornare mai più. Chi va cercando, vive, per dirla con Antonio Franchini. Anche il pane può prendere il sapore della carogna e la santa infedeltà fa da guida a Ulisse, l’Uomo dai mille tormenti: “Che tu sia benedetta, vita, per non essere rimasta/fedele a un solo matrimonio, come una donnicciola;/è buono il pane del viaggio e l’esilio è miele,/per un istante eri felice, godevi ogni tuo amore,/ma presto soffocavi, e a ogni amante dicevi addio”.
Lingua lesta è quella di Odisseo, per l’appunto inteso come il Conoscicuori. Rapidi sono i suoi pensieri. Inesorabili sono le frecce che spaccano i petti di chi lo crede morto e dimenticato. Il suo ritorno a Itaca è un transito. L’Odisseo di Kazantzakis non ha altra perizia che sui vizi. Opera nel futuro anteriore e quel che si racconta di lui non è ciò che fu ma ciò che poi è stato – ciò che ancora è – nel magma del suo divenire. L’Ulisse di questa Odissea si svela in soggettiva. La sua fissità è la fluidità nostra di recitatori delle sue gesta, inesorabilmente ipnotizzati da lui mentre – come un ceffo di Vladimir Majakovskij – si sta accarezzando la barba fradicia di stelle. Nomade, giramondo e capatosta, questo Ulisse non ha altra virtù che la verità del desiderio, il suo mai farsi sazio di distruzioni, di città prese che gli aprono i sacri ingressi gridando tutti i piaceri e di dee nude pronte a giacere con lui.
Ulisse fa l’amore al modo delle vipere avviluppate e vuole fortemente perdere sempre la strada del focolare domestico. Va da Menelao, il tempo dei convenevoli e gli prende Elena, sempre più bella, sempre più devastante e seducente. Parla con la Morte e scorge in lei l’acqua immortale. Ogni passo di Nessuno – che è sempre uno e centomila – è una sosta nell’infinito del viaggio. E’ un bighellonare nel caos, un vedersela con la Morte, un nobilitare la crosta grinzosa del pianeta mentre il tracimante trealberi del riscatto con cui Ulisse entra nel sogno dell’inesistente per svanire, approda nell’Ade.
Tutta delusione e inquietudine, la sua avventura. Tutto un finire nel dissolvimento è il canto di Kazantzakis. Per Ulisse casa è solo il tempo di una sola notte. L’abitazione è solo un ormeggio di sosta cui legare la cima del proprio legno e il mare grande è il luogo dove il tempo presente si ferma, dove il passato rifluisce nel futuro e dove ogni memoria non è città, neppure terra, tantomeno un Monumento di un Commendatore che possa dirgli, col Don Giovanni, pentiti!, pentiti!, pentiti! La sua memoria è solo canto, soltanto poesia: “Quando restavamo soli e lo strepito si placava,/morbido orecchio, ascoltavi tremando il silenzio…e ti posavi al suolo per ascoltare da lontano/i passi furtivi della grande nemica, la Morte -/sii benedetta, conchiglia, che ascolti e non ti sazi”.
I mille begli occhi contornati di nero sono destinati ai baci. La risata apre il sorriso alle orecchie, e i capelli lunghi – bianchi e neri – inseguono il soffio del vento. Come persona, come personaggio, come eroe o mito che sia, Ulisse è il più grande di tutti i romanzi. Tutto ciò che il batticuore cerca è lui. Le domande della vita, le soluzioni alle questioni, la condizione di ognuno e il marchio segreto del divino sono in lui. Ed è l’andarsene di tutti, come semi di grano. Il canto, su tutto. Quello stesso degli aedi, dei rapsodi e dei cuntisti – i cantastorie – che sanno respirare l’abbanniata tra i gelsomini: “La notte a volte è una rosa nera che ti toglie il senno / e la morte sembra una goccia di miele nel cuore”. Per lui, per Ulisse, il Creato – si sa – s’è messo un fiore all’orecchio. A lui, il Creato, destina ghirlande di frutti, melagrane su braccia e ne fa un albero vivente. Su di lui, il Creato, soffia la brezza propizia della Morte.
Post scriptum
La vera questione omerica è quella di essere un’opera aperta. Ogni epoca, infatti, reclama un pezzo dell’Astuto Ulisse per farne epica. Il Kazantzakis della letteratura italiana è stato Stefano d’Arrigo con il suo inarrivabile Horcynus Orca, l’odissea di Andrea Cambria in navigazione da Napoli a Cariddi alla fine della Seconda guerra mondiale. Tra i flutti dello Stretto di Messina, nell’insorgere dalle acque dell’Orcaferone e delle altre fere – mostruosi delfini zannuti – con Ciccina Circè, la megera che incanta i marinai col suono delle campanelle, il lettore s’immerge nello sciame delle innumerevoli lingue del mare. A proposito di D’Arrigo poi, e del mare che bagna Taormina, l’altro Ulisse della questione omerica di sempre è quello di Sergio Claudio Perroni (Milano 1956, Taormina 2019). Nella composizione di Nel Ventre, il racconto della notte del Capitano e dei suoi guerrieri dentro il Cavallo di Troia, Perroni – anch’egli un Conoscicuori – è stato mirabile. Ciò a riprova della riproducibilità del canto oltre la memoria vivente con le parole eterne di un mare – il Mediterraneo – che d’improvviso, grazie a un Poeta vapora nel sublime. Quando arrivano i poeti, la morte fa loro le smorfie, ma come buffe chiamate d’intesa. E a proposito di Perroni, cesellatore della lingua, chissà quanto avrebbe scavato nel capolavoro di Kazantzakis oggi a disposizione del pubblico italiano, con la parola esatta – verso dopo verso – collocata da Nicola Crocetti, il traduttore e l’editore di questa sorprendente Odissea. E pare di vederlo, Perroni, in spiaggia. Sporgendosi sul mare. Sulla sua nube di velluto d’alba. Intento a declamare. E a leggere. Questo seguito di questione. Tutta omerica. E tutta di elegante e rapinoso canto.