L'intervista della domenica
"E credi solo nelle stelle"
L'artigianato, il silenzio, le carte, le creme, la patente, le lavatrici, l'invadenza, la pace, San Lorenzo, Cosmo, Letizia Moratti. Conversazione con Melissa Panarello
In "Sirene", forse il miglior film americano su cosa significa crescere e su che cos’è la morale, Winona Ryder si chiama Charlotte, ha sedici anni e sogna di diventare suora. Sua sorella più piccola, Christina Ricci, sogna di diventare pesciolino, o almeno nuotatrice professionista. Sua madre, Cher, sogna il grande amore, cambia Stato tutte le volte che chiude una storia, cucina soltanto stuzzichini freddi.
Su Piangerone, il gruppo Facebook dove ci si scambia i titoli dei film per i quali più si è pianto nella vita, Melissa Panarello ha indicato "Sirene". E ha ragione: è un film che fa piangere tantissimo anche se non succede niente di drammatico, non ci sono traumi, non c’è violenza, non c’è dolore, non ci sono cattivi, non c’è il male e per la verità si ride pazzamente.
All’età di Charlotte, Melissa ha scritto il suo primo romanzo, “Cento colpi di spazzola prima di andare a dormire”, che ha venduto 3 milioni di copie, nel 2005 è diventato un film (il secondo di Luca Guadagnino), ha fatto scrivere di lei che era un genio, una mitomane, un enfant prodige, un’imbrogliona, una lolita, una meteora. Nei diciotto anni che sono trascorsi da allora ha scritto altri nove libri, una graphic novel, una rubrica di astrologia per Grazia, un sacco di articoli; ha avuto un bambino, Cosmo; ha aperto un’agenzia letteraria; ha partecipato all’Isola dei Famosi; ha letto le carte in un programma di Victoria Cabello.
Anche lei, come Charlotte, da bambina, sognava di diventare suora?
Era il mio sogno anche da adolescente. E pregavo. Pregavo tantissimo.
Cioè lei scriveva di sesso ma voleva chiudersi in convento?
Delle suore mi piacevano i vestiti, il velo, la compitezza, la semplicità. Mi interessava e mi interessa tuttora la vita che conducono. La volta che provai a scappare di casa, mi diressi verso un convento ma mia madre mi trovò prima che arrivassi e mi riportò a casa. Quanto mi dispiacque. Avrei dormito almeno per un paio di notti in pace.
E adesso ci dorme, in pace?
Sì perché sono in pace. Ho risolto o almeno accettato tutte le cose che mi hanno fatto soffrire e dannare. E senza metterci nessun impegno particolare: le ho semplicemente attraversate. Non mi sono risparmiata mai: ho sempre accolto il dolore, mi sono data il tempo di provarlo, non ho cercato di tamponarlo. Sa come diceva Massimo Troisi, lasciatemi soffrire bene? Ecco, così. E quando ho finito di soffrire bene, tutte le volte, mi sono lasciata alle spalle il male che aveva sentito con una facilità e una velocità che a volte, quando ci penso, mi fanno impressione. Mio malgrado, passo sopra a tutto.
Nessun trauma?
Quello che nella vita mi ha cambiata non è mai stato un evento preciso, un colpo, un fatto. Mi hanno cambiata i periodi e i cammini lunghi, le strade complesse, il passare del tempo.
Crede in Dio?
No. Non l’ho mai fatto, non ci sono mai riuscita perché non ho mai capito cosa sia. Da bambina andavo in una scuola privata molto cattolica, dove si faceva un’ora di religione al giorno e ricordo che partecipavo sempre con grande passione, facevo moltissime domande, ma non avevo fede: la mia era soltanto curiosità. Più le cose non mi tornavano e più m’incuriosivo.
Come poteva sognare di fare la suora, allora?
Credo che si possa essere una suora anche senza credere in Dio. Una vita assorta e molto pratica non ha bisogno che di impegno e dedizione.
È una persona pragmatica?
Mi piace fare le cose, vedere i risultati. Ho una passione sconfinata per l’artigianato: è l’arte più grande di tutte. Amo i lavori manuali, ne faccio di continuo e sempre diversi. Qualche anno fa inventavo profumi, creavo creme per il viso e bacchette. Ora disegno.
Creme?
Sì. Terribili. Una volta ne feci una con le fragole e il miele, sembrava di avere del Fruttolo scaduto in faccia.
Funzionava, almeno?
Certo che no. Nessuna crema funziona.
Per questo non ne fa più?
No, perché mi ero annoiata. A un certo punto, mi annoio e devo inventarmi altro. Non so stare ferma, proprio non ci riesco.
Allora è inquieta, non è vero che è in pace.
Più che altro, non mi basta né essere né fare una cosa soltanto. Io non mi sento unicamente una scrittrice e infatti non mi sono mai definita così, e anche quando devo compilare un modulo burocratico e alla voce professione metto scrittrice perché la mia partita Iva è quella lì, faccio fatica, sento fastidio. Ho scritto dieci libri finora e so che sono tanti e mi sembra di fare lo stesso lavoro da sempre, anche se i miei libri sono tutti diversi, in ciascuno ho cercato di esplorare e creare un mondo nuovo.
Che genere di scrittrice è lei?
Posso rispondere con un’altra domanda? So che non è educato ma non lo faccio per maleducazione, lo giuro.
Prego.
E che ne so?
Bene!
Male, invece. Malissimo. Gli editori cercano sempre di tracciare un percorso per ciascun autore, soprattutto se è giovane: è una cosa che agevola la promozione e che, in fondo, è figlia di un tempo che da una parte mal tollera le etichette e dall’altra, però, non può farne a meno, lo stesso incasellabile è diventato un genere, una casella. Io non ho alcun obiettivo e mi annoio al solo sentire pronunciare la parola “percorso”. Non ho idea di cosa voglio fare e non l’ho mai avuta. Prevedevo di fare la scrittrice, lo sognavo quando avevo quattro anni, e da allora non è cambiato niente: voglio scrivere, punto. Di cosa o come o perché non mi importa se non nel momento in cui mi metto a lavoro, senza averci pensato prima, senza essermi detta: sono a questo punto della mia carriera, è giusto fare così, è saggio fare così, da me ora ci si aspetta questo. La ragione per cui mi sono impegnata a levarmi di dosso “100 colpi di Spazzola” è questa: non volevo rimanerci appiccicata, essere costretta a fare sequel, a scrivere storie che potessero sempre ricollegarcisi, far ricordare a tutti che ero quella del best seller dello scandalo. Non rinnego quel libro: è una parte di me, ma non è l’unica parte di me.
In un’intervista di qualche anno fa ha scritto che “100 colpi di spazzola 2”, se mai, lo scriverà quando avrà settant’anni. Lo pensa ancora?
Se le cose continuano così, forse nemmeno a ottanta. A me di fare esperienze sessuali non frega più niente: sono per il sesso coniugale e basta e in fondo lo sono sempre stata, anche quando ero più libertina. Soprattutto, non mi interessa più parlarne, men che meno scriverne.
Ma com’è possibile che il sesso è diventato indifferente a tutti? Anzi, è persino un peso.
Non credo che sia indifferente a nessuno, ma che stiamo finalmente riuscendo a stabilire almeno un principio di realtà: non è il sesso che muove il sole e le altre stelle. Non è un caso che i primi a manifestare il distacco dalla carnalità siano stati i maschi, che per secoli, anzi praticamente da sempre, sono stati obbligati a mostrarsi continuamente eccitati, desideranti. Ora che finalmente la virilità non coincide con l’appetito sessuale, le cose si stanno riequilibrando. Io sono per la libertà sessuale, che è stata confusa con la promiscuità e invece ha a che fare solo con questo: la possibilità di scegliere di non farsi determinare dalla sessualità.
Quando aveva quindici anni lei, però, non era così.
Il sesso era un mezzo essenziale per avere a che fare con gli altri ed era ancora molto legato all’amore, che a sua volta era legato alla stabilità, alla responsabilità, ai ruoli. Tutte cose che ora sembra siano saltate per aria ma che, forse, stiamo semplicemente rielaborando. Io comunque non faccio testo: a quindici anni sognavo di avere una famiglia.
Lei è sicura di sapere cosa desidera?
Non mi pongo il problema, perché ne ho un altro, molto più grosso e angosciante: non ho desideri. Mi rendo conto che sembra la frase di un nichilista, di qualcuno che vive tanto per, che avanza per inerzia, e mi dispiace enormemente. Davvero, ne faccio una malattia. Volevo fare la scrittrice, ho cominciato a quindici anni e non ho più smesso. Non so se continuerò ma finora sono stata contenta e probabilmente questo mi basterà. Desideravo avere una famiglia e la ho. Sono completa. Conosco molte persone che hanno un fuoco, che perseguono un obiettivo, lo rincorrono con tutti i mezzi, fanno sacrifici, e li invidio perché mi rendo conto di come il desiderio sia un motore fondamentale per andare avanti, un carburante che a me manca. Non ho progetti su di me né su mio figlio. Sono cresciuta libera, senza pressioni e non perché i miei genitori mi volessero effettivamente lasciare libera: semplicemente, per loro era più comodo così. Ho trovato presto la mia strada e ho imparato che, per percorrerla, era importante darmi delle regole e rispettarle. Ecco, una cosa che vorrei, una cosa che magari posso dire che è un desiderio, è questa: vorrei che mio figlio diventasse capace di autoregolamentarsi, di usare la libertà nella quale spero di crescerlo non per fare tutto quello che vuole ma per darsi delle norme, una sua costituzione. Io l’ho fatto ed è così che mi sono salvata.
Quando è diventata madre cosa è cambiato?
Ho smesso di essere ipocondriaca, di avere paura per me e ho cominciato ad averne solo per mio figlio. Una cosa sola mi spezza il cuore: sapere che quando invecchierà, io non ci sarò, non potrò stargli vicino.
E i sogni sono cambiati?
Non ne ho poi molti. E comunque non intendo realizzarli, altrimenti che sogni sono?
Me ne dica uno, il più importante.
Prendere la patente. Ogni anno dico: stavolta lo faccio.
Mi sembra che lei abbia completamente in mano la sua vita.
Ho più che altro un fortissimo senso del dovere.
E questo non la inibisce?
Essere responsabili non ostacola l'espressione di sè se non in un caso: quando non è un tratto fondante della propria personalità. Io il senso del dovere lo sento parte di me da sempre, mi dà struttura. Questo non significa che io non faccia cazzate. Con i soldi, per esempio, ho un rapporto del tutto irrazionale: li voglio molto ma quando li ho non vedo l’ora di liberarmene. Faccio subito in modo che spariscano dal conto perché se restano lì mi caricano di una responsabilità che non riesco a sostenere.
Bella scusa!
Sì, lo so. Nobilissima. Un alibi perfetto per comprare un sacco di inutilità e sciocchezze. Sono sagittario, gli oggetti mi piacciono da morire. Però so liberarmene, non sono una feticista.
Quando si sbarazza di una cosa?
Quando voglio fare spazio a un’altra più bella.
Lei è l’incubo di Marie Kondo.
Rido.
Ha paura del vuoto?
Per niente. Il padre di Natalia Ginzburg diceva: restate nel silenzio, state nel vuoto. Il lockdown è stato un grande vuoto e io ci sono stata benissimo perché ho potuto riempirlo di cose. È dal vuoto che nasce l’impulso a creare.
Come mai nei suoi libri l’amicizia c’è così poco?
Perché c’è poco anche nella mia vita. Mi sono sempre bastata, l’ho sempre cercata poco. Mi piace stare da sola, non voglio consigli. Ho amato i romanzi di Elena Ferrante perché ho trovato rappresentata una relazione che non mi appartiene e che non ho mai sperimentato: la coesione con un’altra donna, con un’amica. A me non è mai successo di incontrare persone con cui stabilire un’amicizia così profonda. Ho amiche importanti, poche, e le amo molto, ma non le cerco spesso, non ho bisogno di vederle continuamente.
E l’amore, invece?
L’amore è un’altra cosa. Non ha niente di niente dell’amicizia. È fusione.
E possesso?
Non ho questa pretesa. Però credo molto nel legame e questo fa di me una persona divorante. Diceva Lisa Morpurgo, mia astrologa e studiosa di riferimento, morta molti anni fa, che una donna è aggressiva quando diventa divorante: l’aggressività sta nella sua capacità di inglobare e assorbire un uomo.
Pensa mai di instaurare con i lettori quella fusione?
Non penso mai ai lettori quando scrivo. Né quando leggo cerco riconoscimento. Mi capita, però, di provare empatia, di sentirmi vicina alle storie degli altri, quando le leggo, e di soffrire con loro. E succede anche con gli oggetti. In un manoscritto che sto visionando per la mia agenzia, ho letto l’altro giorno di un buco in un muro di cartongesso: mi ci sono sentita vicina come fosse vivo.
Lei è libera?
Quando scrivo, sì. Totalmente. Ho una sola, grande fortuna: nonostante abbia venduto col primo libro moltissime copie, tutto quello che ho scritto dopo, l’ho scritto senza sentire la pressione di quel successo, pensando sempre che lo avrei letto io e basta. E questo mi ha salvata perché mi ha permesso di non avere filtri: è la ragione per la quale i miei lavori sono spesso dolorosi, pieni di nero e marciume. Nella vita non mi permetto di fare altrettanto.
Vorrebbe riuscirci?
No. Non voglio cambiare. Questo mio tratto in particolare, poi, mi consente di chiedere agli altri di contenersi così come io mi contengo. Così come io metto una barriera, non straripo, non stravolgo gli altri con i miei problemi, le mie opinioni, la mia presenza, esigo che facciano loro con me. So di essere una persona molto pesante e quindi mi trattengo, cerco di non imporre quella pesantezza a chi mi sta intorno. Non mi piace nemmeno rivendicare diritti, posizioni. Ho sempre la sensazione che le cose non mi spettino, e in fondo è vero, credo valga per ciascuno di noi: non tutto ci spetta, anche se lo vorremmo.
Nel suo ultimo romanzo, “Cuori arcani” (Mondadori), entrano la cartomanzia e l’astrologia. Non è la prima volta, ma stavolta mi sembra rappresentino la chiave di volta della storia. Quanto contano nella sua vita e, soprattutto, come si conciliano con il suo senso del dovere? Se tutto è scritto nelle stelle, cosa fatichiamo a fare per averlo?
Le carte leggono quello che sei predisposto a fare, non cosa farai. Ti dicono chi sei, e tu sei tante cose diverse ogni minuto che passa, ogni momento. In questo senso, sono uno sprone ancora più forte all’autodeterminazione.
Ha mai fatto le carte all’umanità?
No e me ne guardo bene.
Però le ha fatte a Letizia Moratti.
Sì, ma non ricordo cosa venne fuori. Ricordo che litigammo. E naturalmente non ricordo perché. Gliel’ho detto: mi scivola tutto addosso. A Formigoni dissi che sarebbe rimasto a casa a lungo e infatti non molto tempo dopo gli diedero gli arresti domiciliari.
Come mai ha chiamato suo figlio Cosmo?
Perché è un nome antico e perché sia io che suo padre Matteo studiamo e osserviamo le stelle, a me interessa l’astrologia e a lui l’astronomia.
Mi dice cos’avete fatto, voi due, al vostro primo appuntamento?
Che domande. Ci siamo letti le carte, naturalmente.
E cos’è venuto fuori?
Non ricordo.
Non le credo, dice sempre così.
Mi creda, invece, ero molto concentrata su quanto mi piaceva, al resto non badavo.
Non sarà di quelle fissate che non fanno niente senza aver consultato l’oroscopo?
Quando ho partorito, io e Matteo abbiamo sperato che il bambino non nascesse con l’ascendente della vergine, ma era solo un pensiero di cui abbiamo riso. A novembre, però, ho aperto la mia agenzia letteraria nel giorno in cui la congiuntura astrale mi era più favorevole.
Viviamo nel migliore dei mondi possibili?
Viviamo nello stesso mondo di sempre. Cambiano i connotati, ma gli esseri umani sono uguali a com’erano nel quinto secolo avanti Cristo.
Come immagina la sua vecchiaia, visto che dice spesso di essere nata vecchia?
Me ne sto distesa su una poltrona damascata a leggere un vecchio romanzo alla luce di una lampada molto costosa.
Perché l'idea di invecchiare la esalta tanto?
Mi piace la compiutezza e le persone anziane mi sembra che la raggiungano.
Lei è nata a Catania, ma non ne parla troppo spesso. La Sicilia è casa per lei o no?
Casa mia è dove c’è la mia famiglia, dove sono Cosmo e Matteo. Con loro potrei trasferirmi ovunque dopodomani, senza pensarci un attimo. Certo, se andassimo a vivere in una bella villa sarebbe meglio.
Alla Sicilia e alle sue streghe però il suo libro deve molto.
Sì. A casa mia si è sempre parlato di queste storie del mondo di sotto e di mezzo, diciamo così. Mia madre frequentava anche alcuni medium, si figuri. Quando ero piccola ci trasferimmo in una casa alle pendici dell'Etna. Si diceva fosse infestata di fantasmi: noi di cose strane ne vedemmo e anzi sentimmo parecchie e allora facemmo delle ricerche e scoprimmo che in quella casa i membri di un'intera famiglia, ben sette persone, si erano impiccati.
Una volta ha organizzato una protesta a San Lorenzo per avere più silenzio. È scesa in piazza con i cuscini. Si rende conto che è forse l’unica al mondo ad aver fatto casino per strada per non avere casino?
Molto borghese, lo so. Lo ammetto. Che male c’è?
Il femminismo la interessa?
Francamente, trovo che sia diventato troppo prescrittivo.
Lei è una brava persona?
Certo. E mi stucca la rivendicazione contraria, il fatto che siccome le donne sono state obbligate per secoli a comportarsi per bene e a non dare fastidio, adesso debbano fregiarsi di fare schifo.
Le canzoni le piacciono?
Mi basta un ascolto per impararle a memoria. Sono preparatissima. La sfido.