Il termine riformismo ha un’origine storica precisa. Viene introdotto in Inghilterra, tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, nel corso della campagna per l’allargamento del suffragio universale culminata nel “Great reform bill” del 1832, che ampliava l’accesso al voto dei ceti borghesi. La sua nascita, dunque, è legata alla storia della democrazia rappresentativa. Verrà poi usato in contrapposizione al massimalismo rivoluzionario, per designare le politiche di welfare state delle socialdemocrazie europee. La prospettiva di un’economia pianificata e di una società senza classi cede quindi il passo a una concezione secondo cui il capitalismo non va abbattuto, ma “civilizzato” attraverso correzioni graduali delle sue storture e delle sue ingiustizie. In questo senso, Eduard Bernstein sosteneva che “il movimento è tutto e il fine è nulla”. Eppure, nel vocabolario del Pci la voce riformismo è stata a lungo censurata. E’ la questione al centro di Eravamo comunisti, un esemplare saggio fresco di stampa di Umberto Ranieri edito da Rubbettino (prefazione di Giuliano Amato, interventi di Biagio De Giovanni e Salvatore Veca). Esemplare perché, come diceva Alessandro Manzoni, la politica ha bisogno di conoscere la storia, e la politica senza la storia è come un cieco senza una guida che gli indichi la via. E’ proprio il centenario della scissione di Livorno, infatti, la molla della sua ricerca.
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