Una curva ebrea nello stadio che fu del Duce
Cosa ci insegna il Dall'Ara di Bologna su memoria e spazi pubblici
All'allenatore ungherese Árpád Weisz, che conquistò due scudetti prima di morire nei campi di Auschwitz, è stata dedicata solo nel 2018 una parte dell'impianto felsineo. Riflessioni su una storia contraddittoria, da cui possiamo imparare molto
La storia che provo a raccontare si presta a finire nello stesso girone algoritmico della pasta Molisana, tanto che in un momento di smarrimento avevo pensato di chiedere alla redazione di pubblicarla solo su carta. Di spazi pubblici e memoria storica se ne parla spesso, e fuori dalle nicchie della cultura alta non è mai un bel dibattito. Non lo è soprattutto se di mezzo ci sono gli stadi, il genere architettonico preferito dal regime fascista e il luogo in cui ancora oggi ci divertiamo a perdere il lume della ragione, come Vittorio Gassman nel settimo episodio de «I Mostri». Nei ciclici e sconclusionati ritorni di scandalo sui simboli del fascismo nel tessuto urbano il primo bersaglio dei «giusti» in genere è il Foro Italico con il suo obelisco. Come se la sua permanenza avesse l’obiettivo di legittimare le delinquenze delle frange del tifo laziale e romanista, come se i mondiali di Grosso e Materazzi non fossero stati vinti nello stadio delle olimpiadi hitleriane, come se proporsi, oggi, di cancellare forme-monito che gli antifascisti del dopoguerra ci hanno consapevolmente lasciato, non fosse il miglior modo di riattualizzare il mito politico del fascismo, invece di superarlo con la comprensione del passato e la costruzione di solide coscienze democratiche.
Il carattere romanocentrico di questo tipo di polemiche risparmia volentieri il primo stadio del fascismo, che non venne costruito nella capitale ma a Bologna. E inizio a pensare che non sia un caso. Perché la sua vicenda, direttamente connessa al problema della memoria e del razzismo – il tema per eccellenza di cui non sappiamo dibattere – è un bel luogo in cui rifugiarsi quando fuori piove purezza. Lo stadio in cui tutt’oggi gioca il Bologna F.C. 1909 venne costruito tra il 1925 e il 1927, per volontà del gerarca fascista Leandro Arpinati, podestà di Bologna e al tempo Presidente della Federazione Italiana Gioco Calcio. L’inaugurazione dell’impianto, avvenuta la mattina del 31 ottobre 1926, costò quasi la vita a Mussolini, sfiorato in strada dal proiettile dell’anarchico quindicenne Anteo Zamboni, che di tutta risposta la milizia linciò sul posto. Costruito ai piedi della Basilica di S. Luca e posto al centro di un più ampio complesso sportivo completo di campi da tennis e piscina coperta, con le sue arcate di mattoni rossi riecheggianti le terme di Caracalla e l’aggiunta della suggestiva torre di Maratona, il «Littoriale» – così si chiamava il «primo anfiteatro della rivoluzione fascista» – fu il primo stadio italiano in senso moderno, tanto che nel 1934 fu scelto per la fase finale della seconda edizione dei mondiali di calcio, ospitati e vinti proprio dall’Italia.
In questo luogo così importante, tra il 1935 e il 1938 ha giocato «il Bologna che faceva tremare il mondo». Il suo allenatore si chiamava Árpád Weisz, era ungherese ed era ebreo. Weisz arriva a Bologna che è già conosciuto: nel 1930, con l’Ambrosiana (così si chiamava l’Inter quando c’era Lui) si era aggiudicato il primo campionato italiano a girone unico (mai più vinto da un under trentaquattro); durante il suo periodo in neroazzurro aveva scoperto il giovane Giuseppe Meazza e inventato l’«allineamento dei cinque terzini», copiato da Vittorio Pozzo per vincere i mondiali di cui sopra. Con l’ungherese in panchina il Bologna conquista 2 scudetti consecutivi (1936 e 1937) e vince a sorpresa il Torneo dell'Esposizione Universale di Parigi (l’antenato della Champions League) battendo 4 a 1 il Chelsea. Quando, nell’autunno del 1938, il regime promulga le leggi razziali, Árpád è alla guida di una delle squadre più forti d’Italia ed è noto su tutto il territorio nazionale. Siamo in un’altra epoca, qualsiasi paragone con i volti mediatici della serie A odierna sarebbe improprio, ma se stiamo al campo il paragone è azzardabile: per innovazione, risultati e peso del club ingaggiante Árpád Weisz è stato il José Mourinho degli anni Trenta. Eppure, nonostante questo, lui e la sua famiglia scomparvero nel nulla. Fuggirono in Olanda e qualche anno dopo, a seguito dell’invasione nazista, lui, sua moglie e i suoi due figli morirono nei campi di Auschwitz, separati e in momenti diversi.
Il 21 aprile 1945 a Bologna entrano i polacchi, è la Liberazione. Nel dopoguerra il Littoriale diventa «comunale», la statua equestre del Duce che campeggiava sotto la torre di Maratona viene fusa nei partigiani di bronzo che ancora oggi vegliano su Porta Lame, il nome di Árpád viene cancellato dalla memoria privata e collettiva. Nel segreto dei loro cuori non potevano non ricordarlo i tifosi bolognesi, cui nessun’altro allenatore ha mai portato tanti risultati in così poco tempo; non poteva non ricordarlo il sindaco comunista Giuseppe Dozza, a guida di una città medaglia d’oro della Resistenza; ma soprattutto non poteva non ricordarlo il presidente Renato Dall’Ara, che aveva chiamato Árpád in panchina e che, ruspante e bonario, guiderà il Bologna per altri vent’anni, spegnendosi a pochi giorni dallo scudetto del ‘64 (il cuore di Dall’Ara cedette mentre si trovava nella sede della Lega Calcio per preparare lo spareggio con l’Inter campione d’Europa, sinora l’unico spareggio della storia del nostro campionato). Un ventennio più tardi, nel 1983, il comune dedica proprio a Dall’Ara lo stadio cittadino, nel 1986 nasco io, e il nonno e il papà mi ragguagliano su tutto quello che mi sono perso: eravamo la squadra che faceva tremare il mondo, il nostro è lo stadio più bello d’Italia, hai l’onore di essere nato rossoblù.
Di Árpád però continua a non esserci traccia: nemmeno nella mitologia privata di chi c’era, nemmeno se quel mito è antifascista. Nel 2011 il giornalista Matteo Marani pubblica i risultati della sua ricerca in Dallo scudetto ad Auschwitz, il libro da cui ho tratto buona parte delle informazioni qui riportate (leggetelo tutto, merita). I politici locali e i dirigenti della squadra lo leggono, e sette anni dopo, il 25 gennaio 2018, ovvero 35 anni dopo l’intitolazione del Littoriale a Dall’Ara, il comune e la società dedicano ad Árpád Weisz il settore sud (noto come curva San Luca). L’asciutto discorso del Sindaco Virginio Merola è attraversato dell’imbarazzo di chi sa che dopo così tanti anni nessun gesto può essere davvero riparatore: «Ad ottant’anni di distanza dobbiamo riconoscere che noi bolognesi non abbiamo fatto una bella figura e chiediamo scusa ai concittadini ebrei perché allora ci fu troppa indifferenza…».
Riassumiamo. Un tifoso del Bologna che oggi va allo stadio entra in un impianto di costruzione fascista, per un quarto intitolato a un grande allenatore ebreo sebbene l’edificio nel suo insieme porti il nome di un grande Presidente che a quanto sappiamo nulla fece né per salvarlo né per ricordarlo. L’eroismo è tale proprio perché non è di tutti, ma il silenzio postumo, che ha accompagnato il dopoguerra e scollinato nel nuovo millennio è senza dubbio una vergogna cittadina, sportiva, morale. Dinanzi a questa storia non c’è una sola reazione possibile. Possiamo rigettarla, denunciarla, odiarla: perché «ci è stata nascosta» e perché indigna che una vittima del nazi-fascismo venga risarcita con una fetta dello stadio intitolato a uno spettatore passivo di quell’ingiustizia: «Dall’Ara was a racist», per dirla in Facebook-pensiero. Oppure possiamo comprendere questa incredibile sovrapposizione di fatti e memorie, riflettere su quanto debba essere stato difficile, nell’immediato dopoguerra, affrontare il prima; ipotizzare che in questa tragica contraddizione ci collochiamo anche noi, come contemporanei, perché gli esseri umani non hanno certo smesso di essere forti con i deboli e deboli con i forti; concludere che in fondo ha senso che Weisz sia una parte di Dall’Ara, perché è probabile che così sia stato, nel vissuto e nella coscienza di Dall’Ara stesso.
Possiamo, infine, cogliere l’occasione di comprendere la differenza che corre tra una persona nel corso della sua molteplice vita, la ricostruzione storica del suo personaggio e la decisione politica di sublimarne un aspetto solo in memoria pubblica. Da questa terza prospettiva ha molto senso che lo stadio di Bologna sia intitolato al suo più grande presidente e ha altrettanto senso l’aver recuperato la figura di Árpád Weisz alla storia civile e sportiva della città e del Paese. Che tutto questo una volta messo insieme sia contraddittorio, sovrapposto e forse disturbante, è una civica lezione di storia che ricaviamo da una città in cui le vie del quartiere Cirenaica sono intitolate ai partigiani, una città, Bologna, in cui via Libia (la Libia dei liberali, non dei fascisti) non corre lontano da via Stalingrado. Segni da saper leggere e conservare in quanto tali: non già in ossequio ai poteri e alle ideologie che ce li hanno lasciati, ma alla memoria del Novecento e alla democrazia.