Il milanese è l’unico dialetto al mondo che per dire lavoro non usa un sostantivo, ma un verbo: “lavorà”. Il problema è che troppo lavoro annebbia la vista e impedisce una visione d’insieme perché costringe a percorrere sempre la solita strada, come i paraocchi ai cavalli. Il lavoro è una droga che trasforma in una performance perfino il riposo. Come dice il cumenda Braghetti in “Vacanze di Natale ’83”: “Alboreto is nothing. Milano-Cortina un giro di rolex”. La figuraccia della regione Lombardia sui dati sbagliati non è un banale caso di inefficienza, è un’imperdonabile sopravvalutazione di sé. È un momento di svolta che cambia l’immagine della città. A Milano accade quasi sempre, alla fine di ogni decennio: il boom degli anni Sessanta finì nel 1969 con Piazza Fontana e l’omicidio di Pino Pinelli, la “Milano da bere” degli Ottanta terminò nel 1992 con l’arresto di Mario Chiesa e i suicidi di Gabriele Cagliari e Raul Gardini, lo splendore degli anni dell’Expo è andato a sbattere nella gestione della pandemia e in questo incredibile errore. Nei decenni felici in pochi ascoltano il monito di Ernesto Calindri, il vecchio commendatore che nel carosello della China Martini continuava a ripetere, scuotendo la testa: “Düra minga, düra no. Non può durare”.
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