Offese e odi indomabili. Perché Enrico Caruso, il più grande tenore del primo Novecento, non mise più piede nel teatro della sua città
Cosa sono cent’anni? Sono un secolo o niente se – tra guerre e paci – non bastano a rimettere d’accordo un uomo o la memoria di un uomo con la propria terra. Veduto dal 2021, sembra solo ieri o chissà quando quel 1921 in cui morì Enrico Caruso, tenore dei tenori in vita e adesso, la star più luccicante del suo tempo e stella fissa di quelli che seguirono. Fu il figlio più famoso nei cinque continenti dell’amabile e imperdonabile città di Napoli, dove aprì e chiuse gli occhi, dove mosse i primi passi da povero e gli ultimi da ricco in un esiguo tragitto biografico – spirò a 48 anni – segnato da una lite irrimediabile. Scoppiò la sera del 30 dicembre 1901 al Teatro San Carlo. Lui sulla scena Nemorino in L’elisir d’amore, loro – i concittadini nelle poltrone – che non lo applaudirono abbastanza soprattutto sui giornali all’indomani, quando a essere precisi il guaio lo combinò tal barone Saverio Procida, princeps dei critici partenopei.
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