Le foto di Koudelka al Museo dell'Ara Pacis, alla scoperta delle nostre radici
Nel tempo ci ha regalato panorami speciali dominati da una bellezza essenziale e solitaria nei quali l'uomo sembra spesso perdersi
“Dall’esilio non si torna mai”, spiega Josef Koudelka in “Shooting Holy Land”, il documentario di Gilad Baram che per quattro anni fu suo assistente mentre fotografava il muro tra Israele e Palestina. L’esilio, nella sua vita, il celebre fotografo ceco, classe 1938, lo ha subito e lo ha vissuto, ma ne è uscito a suo modo vincitore.
Da rifugiato politico, rimase apolide fino al 1987, quando divenne cittadino francese, ma venti anni prima c’erano state la primavera di Praga e la sua prontezza nel prendere in mano la rudimentale Exakta e scattare. Quei negativi seguirono canali clandestini e finirono nelle mani dell’agenzia Magnum Photos per poi essere pubblicati sul Sunday Times in maniera anonima, contrassegnate solo dalle iniziali “P.P.” (sigla di Prague Photographer/"fotografo di Praga") per scampare alle ritorsioni del regime. Da quel momento, le immagini di quegli eventi divennero drammatici simboli internazionali e un anno più tardi, “l’anonimo fotografo ceco" ricevette la Robert Capa Gold Metal dell’Overseas Press per la realizzazione di fotografie che richiedevano un coraggio eccezionale. Grazie alla Magnum - l’agenzia dove entrò ufficialmente nel 1971 - ottenne l’asilo politico in Inghilterra dove rimase per tre anni, per poi iniziare il suo “nomadismo” in giro per l’Europa realizzando servizi rimasti leggendari come “Gypsies”, nel 1975, da cui il suo primo libro – e soprattutto “Exiles”, nel 1988, il secondo, centinaia e centinaia di scatti di un esule in giro per l’Europa con poco denaro e senza bagaglio, alcuni dei quali poi donati al Centre Pompidou di Parigi.
Le sue sono foto in bianco e nero, inquadrature severe e rigorose, ma del resto, quando si pensa a Koudelka, è proprio il rigore a venire in mente come il caso e l’azzardo, la tenacia e la passione, quella stessa che ha sempre avuto sin da piccolissimo, quando riuscì a recuperare i soldi per la sua prima macchina fotografica (una 6X6 reflex di bachelite) raccogliendo fragole nei campi, venderle in un villaggio vicino a quello in cui viveva e fotografare lasciando definitivamente gli studi di ingegneria aeronautica. Nel tempo ci ha regalato panorami speciali dominati da una bellezza essenziale e solitaria nei quali l'uomo sembra spesso perdersi. Alcune di queste foto dedicate ai siti archeologici del Mediterraneo, potrete ammirarle dal vivo a Roma, nella mostra “Josef Koudelka. Radici. Evidenza della storia, enigma della bellezza” presso il Museo dell'Ara Pacis. Una mostra importante (anche perché è stata la prima a inaugurare dopo il lockdown) e imponente come le dimensioni di quelle foto e di ciò che rappresentano: immagini in bianco e nero che raccontano e ripercorrono lo straordinario viaggio fotografico che ha fatto per 26 anni in oltre 200 siti alla scoperta delle radici della nostra storia tornandoci più volte.
“Perché ci vado?”, si chiede lui in un video poco dopo l’ingresso riferendosi a questi posti speciali affacciati sul Mediterraneo. “Perché sono belli e meravigliosi e perché lì mi sento molto bene. Posso stare da solo e fare ciò che per me conta davvero: una buona foto. Vado in giro e cerco di scoprire il posto così l’immagine aspetta. Se sei fortunato ce la fai”. Apre la mostra un’immagine della cittadella d’Ammam, in Giordania (2012), una di quelle che è fondamentale per creare “una passeggiata tra le meraviglie”, come ci spiegano Roberto Koch e Alessandra Mauro di Contrasto che l’hanno promossa e organizzata con Zètema Progetto Cultura e la collaborazione di Villa Medici. “Koudelka non assomiglia a nessun altro”, precisa Koch. “Lo conosco da quasi 40 anni, da quando lo vidi passare per la prima volta a piazza Navona e lo fermai. Cerca sempre il massimo da una situazione, dalle persone, dal paesaggio e da sé stesso e ha una costanza e una metodica, una grande intuizione artistica. Il paesaggio dei siti archeologici che ci regala in queste immagini è un cercar cose che non possono essere recuperate in futuro, è un godere del presente”. “Un lavoro del genere non poteva che esser visto qui a Roma, in questo luogo così particolare – ha aggiunto la Mauro - ed è per questo che gli abbiamo proposto di chiamare la mostra “Rovine” e non “Ruines” o “Ruins” come in Francia e in Inghilterra - perché la nostra è una città costruita e che vive già sulle sue rovine - un titolo che lui ha subito accettato – di cui volevamo mostrare le radici”.
Le radici possono essere un edificio distrutto, un’opera d’arte abbandonata, un frammento di pietra o di ceramica, ed esistono proprio grazie all’archeologo o al fotografo – come in questo caso - che le riconoscono in quanto tali. Bisogna identificarle, dar loro una data e una funzione e immaginarne un percorso che va dalla costruzione alla distruzione, che è poi quello che ha fatto lui. Nella mostra romana –visitabile fino al 16 maggio prossimo – Koudelka ci porta dalle sfingi egiziane a Pompei, dalle rovine romane ai templi della Grecia, ma c’è anche la Turchia e la Francia con una bell’immagine del Ponte del Gard. Una maniera per creare, nell’insieme, la sua personale Odissea in panoramica, un viaggio fatto di panorami senza tempo, ricchi di anima e fascino, caratterizzati da prospettive inaspettate e ambivalenti che ben rappresentano il suo lessico visuale e la sua cifra stilistica che evita la semplice illustrazione e documentazione delle rovine. È ciò che rimane di un tempo più o meno lontano di cui Koudelka ci rende partecipi, un qualcosa da ammirare restando in piedi o in una delle suggestive panche in legno scelte per l’allestimento – decisamente all’altezza di questa mostra impreziosita da un elegante catalogo pubblicato da Contrasto - su cui sono riprodotte altre fotografie di siti archeologici, da Selinunte a Delos, da Paestum a Ieropoli e Roma. Le testimonianze archeologiche sono così rappresentate in un’eterna tensione tra ciò che è visibile e ciò che resta nascosto, tra memoria e oblio, un qualcosa a cui lui – più e meglio di chiunque altro – è riuscito a dare respiro.