A ognuno il suo
Super (Bowl) Sanremo
Osare, metterci di buonumore. Copiare, forse, dall’America. Per un festival che guardi al futuro
Gli americani hanno il Super Bowl, noi Sanremo. A ciascuno il suo evento televisivo dell’anno. Guai a levarlo: infiniti lutti addurrebbe. Che il Festival sia salvo pare assodato, ma un anno esatto di pandemia ci ha insegnato a non assodare niente, quindi continuiamo a tenere le mani giunte, in posa apotropaica. Tuttavia, il punto pare ora essere non tanto il se bensì il come si farà il Festival ed è per questo che potrebbe essere utile guardare alle Americhe, dove si straparla almeno quanto si strafà, e magari scopiazzare qualcosa, ricalcare, infine elaborare se non un Sanremo modello Super Bowl, almeno un Sanremo modello Super, uno spettacolo ideato non in emergenza ma in vista del futuro.
È un peccato che quest’anno tra i concorrenti non ci sia Achille Lauro, principe Transformer, poiché lui avrebbe di certo reso divertente il mascheramento in sicurezza, previsto dal rigido protocollo ieri l’altro recapitato dalla Rai al Comitato tecnico scientifico. In assenza di Achille, non ci sarà che rigida esecuzione della norma, che vira al lugubre e anche al grottesco, con culmine manicomiale nella consegna dei premi a mezzo di carrello lanciato sul palco in direzione del vincitore – e dove siamo, a casa di Johnny Depp e Amber Heard quando erano sposati e si lanciavano appresso armadietti, bottiglie di vodka e cani? Per carità. Sono o non sono mesi che vediamo spettacoli televisivi durante i quali evitare assembramenti e scambi (di oggetti, mani, microfoni, premi) non comporta giavellotti, tiri con l’arco e lanci di nessun genere?
Buono, invece, il taglio della durata: pressoché nullo. Cinque ore di diretta, dalle 20.40 alle 2 di notte, come era e come sempre sarà. Apriranno spesso le finestre? Ha scritto Lancet, ma Cosmopolitan e tua nonna lo dicono da un sacco, che più che igienizzarsi le mani conta far arieggiare gli ambienti, ché l’aere gravato et l’importuna nebbia compressa intorno da rabbiosi venti eccetera eccetera. E i contenuti? E i soldi? E il rilancio, la (bleah) resilienza, le idee, i poeti, il coraggio? Ma sul serio la Rai vuole mandare in onda il Festival ospedalizzato? Al Super Bowl, dove conta la partita ma soprattutto quello che c’è intorno, ovverosia gli intermezzi musicali e le pubblicità (gli inserzionisti sborseranno milioni di dollari per spot da 30 secondi: 5,5 miliardi soltanto la Cbs), si ragiona soprattutto su come presentarsi: sommessi o impermeabili? “I marchi che hanno scelto un approccio sobrio rischiano di ricordare agli spettatori quello che vorrebbero dimenticare, almeno per qualche ora, guardando lo show”, ha scritto il New York Times.
E questo è il dilemma sul quale si arrovellano tutti gli intrattenitori da mesi, sarebbe bello che il Festival ci ragionasse su, trovasse e indicasse una sua via, visto che è – almeno all’apparenza – meno inchiavardato in dinamiche pubblicitarie, e quindi può rischiare un po’ di più. Indeed, motore di ricerca per disoccupati e affini, presenterà al Super Bowl uno spot in cui racconta com’è cercare un lavoro in mezzo a una pandemia. Mica male, no? Il Festival potrebbe fare qualcosa di simile e anziché i monologhi di Diletta Leotta sulla bellezza interiore potrebbe proporne di più vicini al mondo che stiamo vivendo e vedendo cambiare, e non a fondo perduto, non come tappabuchi autoriale, bensì magari come spot. I broker ribelli della Robinhood pare che trasmetteranno un clippino con tanto di slogan: “Non hai bisogno di diventare investitore. Ci sei nato”. La Coca-Cola non ci sarà, e anche altri daranno forfait. Ma chi ci sarà pensa a rimodulare, a sollevare il paese, anche se soltanto per qualche ora. Per favore, Sanremo, pensaci anche tu, fai il miracolo, mettici di buonumore, scollegaci dal virus, portaci in carrozza, non in carrello.