Natan Sharansky, nove anni di carcere da ebreo refusenik, nella sua autobiografia traccia un parallelo tra il “pensiero di gruppo” allora e oggi. “Mio padre si costruì una doppia vita per sfuggire alla repressione”
Negli anni in cui Natan Sharansky organizzava un movimento ebraico di resistenza alla repressione sovietica, sulla stampa il sionismo era bollato come “pornografia” e la tv di stato russa definiva i refusenik come lui “mercanti di anime”. Il Kgb arrestò Sharansky con l’accusa di essere una spia. Fu condannato a tredici anni. Fuori dal tribunale, decine di ebrei intonarono l’inno di Israele, l’Hatikvah. In prigione, Sharansky fu messo a pulire i bagni. Per le feste di Chanukkah accendeva le candele in segno di protesta. Ogni volta veniva punito. Osservava continui scioperi della fame e, per non perdere le facoltà mentali, giocava a scacchi con se stesso, senza pezzi, né scacchiera. Si ammalò gravemente, rischiando di morire, e gli furono confiscati i libri di ebraico. Il grande fisico Edward Teller da New York lo definirà uno dei “martiri” del 900. Nel febbraio del 1986 Sharansky venne scambiato con altre spie nelle mani degli americani sul ponte di Glinicke, a Berlino. Di libertà di parola qualcosa dunque ne sa, Sharansky.
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