Una fogliata di libri
Gli affanni quotidiani che Dickens s'impegnava a celare
“Charles Dickens. Una vita in lettere” è un viaggio nell’universo intimo di uno tra i più grandi scrittori della storia
"Ieri ho bruciato, nel giardino di Gad’s Hill, lettere e documenti accumulati in vent’anni, e poiché il tempo era splendido quando ho cominciato, e pioveva a dirotto quand’ho terminato, sospetto che la mia corrispondenza abbia oscurato il volto dei Cieli”: un’ammissione in piena regola quella che Charles Dickens confida all’assistente Wills nel 1860, non già per l’azione in sé quanto per la volontà stringente. Far sparire. Eclissare i propri segreti – almeno in parte, poiché amici e colleghi custodirono un centinaio di lettere di cui forse Dickens non aveva tenuto conto – fu impresa tutt’altro che semplice; l’epistolario dickensiano conta una mole di documenti che Laura Bartoli, curatrice del volume “Charles Dickens. Una vita in lettere” (ABEditore, vol. I), conosce fin troppo bene, visto che ci ha donato una selezione delle sue lettere più interessanti per ricostruire non tanto la figura del genio letterario quanto quella dell’uomo (un lavoro eccellente quello della Bartoli che, va detto, non ha pretesa di esaustività rispetto alla materia, vastissima e stratificata).
Nelle trecento pagine del volume emerge l’“ombra di tutto quel che l’autore s’impegnava a celare”, l’universo intimo di un uomo che è tra i più grandi scrittori della storia, in grado di condensare nei suoi capolavori non solo l’insegnamento dei precursori ma un Tempo, un Mondo e un Modo di vedere il presente che ha superato lo sguardo dei maestri per restituirci una tradizione rinnovata e minuziosamente descritta.
Dickens, però, non è solo l’uomo della Letteratura. E’ anche l’uomo dei conti e dei calcoli, degli affari e degli affanni.
Dall’infanzia strappata e dall’umiliazione di genitori mai all’altezza, il giovane Charles si ritrovò a ventisette anni con tre romanzi alle spalle, ambiziosi progetti per il futuro, una moglie, due figli e una ricchezza che mai si sarebbe immaginato – per tacer di tutto quel che sarebbe arrivato di lì in poi. Eppure non era felice. Fra le mura domestiche lo spirito intraprendente di Dickens lasciava il posto a un demone irrequieto, saturo della vita famigliare, indispettito dalla depressione della moglie: “Temo sia troppo tardi per domandarvi di pigliarvi questa casa” scrive a Thompson nel 1840 “ma se la vorrete, l’avrete a un prezzo stracciato, visto che i soldi non valgono niente a confronto della possibilità di sbarazzarmi della famiglia”. Già, perché la statua di Dickens, quel colosso marmoreo che l’Inimitabile ha costruito nel corso della prima parte della sua vita – la sua figura lievita pagina dopo pagina, cresce a tal punto da esplodere fra le righe –, non può essere messa in discussione dagli ostacoli del privato. Charles è immenso, infaticabile, inarrestabile – e, lo vedrete nel secondo volume delle lettere, autodistruttivo. E’ l’architetto di se stesso, il muratore e anche l’arredatore. Affoga negli affanni del quotidiano, progetta continuamente e tenta di superare la soglia stessa del successo (“ALLORA, lo mettiamo su questo spettacolo???”), diventa irascibile ma salva sempre le apparenze. Uno spietato senso pratico – per non dire cinismo – lo accompagnerà per tutta la vita, salvandolo e affossandolo.
E se il denaro fu la preoccupazione più grande, resta comunque la soddisfazione della gloria: “Non è stupefacente” scrive a Forster nel 1844, e forse anche a se stesso “che un tale grandioso successo debba recarmi tanta ansia e delusione?”.
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