Il teatro di un esagerato
Cinquant’anni fa Thomas Bernhard esordiva con “Una festa per Boris” e già da allora si poteva impazzire cercando significati nascosti, allusioni, trame di allusioni e foreste simboliche. Ossessioni e temi ricorrenti
Non temere di dire cose insensate!
(Ludwig Wittgenstein, “Pensieri diversi”)
"Il mio teatro? Non ha nulla a che vedere col botta e risposta. Nel mio teatro ognuno parla da solo e dice cose a caso. In fondo ogni mia opera non è il testo: è quel che ho immaginato mentre la scrivevo”.
Così parlò Thomas Bernhard, trasformando le parole in pietre. Eppure negli anni c’è chi ha tirato dritto e si è creato un feticcio su misura. C’è chi si è scervellato, mosso dalla convinzione che ogni grande scrittore lavori per nascondere i moventi della propria opera anziché rivelarli come un dilettante. C’è chi si è imbarcato in avventurose traversate con gita al Faro delle grandi Metafore, incapace di separare l’autore dall’io narrante di cui si serviva. E’ successo, a teatro, di imbattersi in libretti di sala deliranti che prendevano Thomas Bernhard e lo inscatolavano, facendone, di volta in volta, un semplice indignato, un banale moralista, insomma, uno scomodo qualsiasi, un antibuonista (sic!), la parodia di un ribelle furioso o di un malato di grave morbus austriacus – e per carità, in quest’ultimo caso niente di grossolanamente inopportuno: a leggere anche solo “Estinzione” ci si fa un’idea dell’innegabile disprezzo che egli nutriva per il suo paese, al punto da includere nel testamento il divieto di pubblicazione e di rappresentazione delle proprie opere entro i patrii confini finché non ne fossero scaduti i diritti.
E’ successo di leggere doviziose considerazioni circa la sua attrazione verso la morte proprio mentre Bernhard diceva: “Non sono affatto attratto dalla morte, e la critica che continua a sostenerlo scrive sciocchezze”. O dotte ricerche sulla sua condizione di uomo in bilico, laddove lui chiariva: “Se una donna mi scrive “Ho letto il suo libro e come lei mi trovo sull’orlo del precipizio” questa donna sta commettendo un grave errore perché io non sono sull’orlo del precipizio”. Oppure ambiziose recensioni votate allo scavo psicologico e comicamente affossate tra gli squisiti laterizi della bernharditudine percepita, e intanto lui tuonava: “Non ho mai letto una recensione che non fosse un completo fraintendimento, davvero, nemmeno una. Dovrei scrivermele da solo, potrei scrivere io le recensioni dei miei lavori”. Quasi mai è successo di leggere testi che, semplicemente, si attenessero. E vai a capire perché, dato che in realtà Thomas Bernhard è stato chiaro come nessuno rispetto alle chiavi di lettura utili per comprendere ciò che scriveva. E’ un autore – come lo definisce Eugenio Bernardi nell’introduzione al quinto volume del suo Teatro, edizioni Einaudi – “diretto e artificioso”. Ma soprattutto diretto. In ogni caso, questi sono i due poli tra i quali la sua scrittura oscilla.
“Nel mio lavoro, quando qua e là si formano i primi segni di una storia, o quando in lontananza vedo spuntare, da dietro una collina di prosa, l’accenno di una storia, gli sparo addosso”. Serve altro? Stiamo parlando di uno scrittore convinto che la trama fosse un’illusione irritante e che si potessero scrivere cinquemila pagine su una palla di sterco di cavallo. Di uno scrittore persuaso che di ordine ce ne fosse già troppo e che il compito principale della letteratura, e soprattutto del teatro, fosse “fare a pezzi e ricomporre: ogni movimento, una follia”. Stiamo parlando di un drammaturgo che, nella pièce “Minetti”, dà corpo all’idea di un teatro che, per avere senso, deve mirare niente meno che a distruggere se stesso (“Mostrare / in un solo istante / l’intera letteratura classica / percepirla / e distruggerla / annientarla / e contemporaneamente / in un solo istante / ribaltare il senso della storia / e la storia del senso”). Stiamo parlando – in sintesi – dell’uomo che diceva di obbligarsi a vivere dove sentiva il maggior grado di ostilità possibile.
“Non ho mai smesso di oppormi”, disse a Peter Hamm nel 1977 durante una conversazione notturna che, pubblicata proprio con questo titolo tre mesi fa dal piccolo editore pesarese Portatori d’acqua nella collana Scorciatoie, è davvero un’utilissima scorciatoia, contributo preziosissimo per capire chi fosse davvero questo (maledetto? benedetto?) Thomas Bernhard gravato da milioni di fraintendimenti ed eccedenze interpretative, questo malato terminale che non terminava mai di ammalarsi di curiosità per la vita, malgrado la vita e malgrado se stesso – perché poi, alla fin fine, era a sé che riservava l’opposizione più furente, come ogni grande scrittore deve fare. Oggi, a cinquant’anni dal suo esordio teatrale con “Una festa per Boris” al Deutsches Schauspielhaus di Amburgo e dal conferimento del Georg Büchner da parte della Deutsche Akademie für Sprache und Dichtung, vale a dire il più importante premio letterario tedesco, è davvero interessante rimbalzare tra le sue drammaturgie e questo libretto perpendicolare e sfrontato, perché in questa conversazione Thomas Bernhard parla, straparla e, immancabilmente devoto a quell’arte dell’esagerazione che ha sempre riconosciuto come criterio di tutta la sua indagine del mondo, getta piena luce sul corpus della propria attività teatrale.
Quello di Thomas Bernhard è il teatro di uno che si oppone, alle forme, ai contenuti e a tutti i riti: è il teatro di un Esagerato. La verità è che anche qui, nelle sue drammaturgie, si può sguazzare eccome. Si può impazzire cercando significati nascosti, allusioni, trame di allusioni e foreste simboliche. Ci si può sbizzarrire col trovarobato comparato più indecente frugando in cassetti zeppi di fantasmi, ossessioni e temi ricorrenti. E il bello è che lo si può fare spalleggiati, quando non addirittura eccitati, dalla scrittura stessa di Bernhard, che nel teatro come nei romanzi sembra fatta per aizzare quel genere di scavo: una scrittura che avviluppa per ucciderti, che fa della circolarità una norma patologica, che procede per variazioni e propone e ripropone, statuisce e rassoda in strati successivi e concentrici. Ma sarà un passatempo sterile, ammesso che possa essere divertente, perché in realtà in Bernhard non ci sono significati nascosti, ma sempre e solo ricchissimi significati palesi – perché non godersi quelli? Nel suo teatro ogni personaggio vomita se stesso di continuo, sputa non solo il rospo ma tutto lo stagno, e ulula nell’espellere il bubbone dell’inquietudine per l’impossibilità di dire la verità o di superare l’esperienza umana. Le drammaturgie bernhardiane sono, in fin dei conti, grande chiacchiera: chiacchiera sincopata, torrenti di chiacchiera che ipnotizza, chiacchiera la cui superficie si increspa all’improvviso con una verità che afferra e trafigge; e non si può nemmeno parlare di personaggi ma, in quasi tutti i casi, di grumi umani che esalano parole e suoni; di corpi – come in “Una festa per Boris” – quasi irriconoscibili, “ectoplasmi avvolti da stracci, embrioni di quarant’anni, lividi e sanguinanti, diciamo pure dei fagotti umani”. Certo, nulla di particolarmente rassicurante o brioso, anzi, tutto ferale, tutto oscuro: ma è proprio nelle drammaturgie che Thomas Bernhard ha espresso Thomas Bernhard al massimo grado, lo si ami o no.
Quanto alle rappresentazioni sul palcoscenico, le odiava. Perché – diceva – prendevano la forma di un compromesso ridicolo e insopportabile. Quando si trovava davanti a una di queste rappresentazioni firmate da pasticceri, “piene di bella gente, mentre i personaggi non dovevano essere nemmeno persone” aveva voglia di scappare a gambe levate, di chiudersi in casa e di non rifarlo mai più. Invece poi lo rifaceva eccome. L’ha rifatto per una ventina di volte che sembrano una, perché, pur considerando i cambiamenti di temi, ambientazioni e situazioni, tutti i personaggi bernhardiani sono – nel senso meno triviale del termine – intercambiabili. E lo sono al punto che non è peregrino pensare che la Buona di “Una festa per Boris” possa intrecciare i suoi monologhi con quelli del Caribaldi di “La forza dell’abitudine” senza che venga meno la forza del disegno generale. O che il teatrante dell’omonima pièce incroci le lame con Vera di “Prima della pensione”.
“Ho l’impressione che tutte le mie opere teatrali potrebbero essere una sola, un’opera nella quale tutti i personaggi che compaiono nelle singole pièces entrano in scena contemporaneamente”. Sì, si può. E’ facilissimo immaginare un solo palco e un’unica quinta – un qualunque interno – in cui tutti i suoi personaggi si riversino in scena nello stesso momento e comincino a blaterare, pure, nello stesso momento, accavallandosi alla rinfusa, berciando, cantilenando e generando una Maiuscola Nenia iperbernhardiana: sarebbe la rappresentazione più anarchica, coraggiosa e significativa mai data del corpus dello scrittore, una festa distruttiva sfacciatamente aderente alle sue volontà. Il teatro di Thomas Bernhard è, dopotutto, sempre questo: aprire una porta e ascoltare un delirio, sottoporsi volontariamente a uno sproloquio, a una farneticazione a più voci, assistere allo stesso massacro su più note, in diverse tonalità. Il teatro di Bernhard è unico anche perché è uno. Ed è lo stesso posto, lo stesso momento, lo stesso attimo che torna ogni volta, in ossequio alla musica della circolarità che è sempre, anche nei romanzi, lo strumento con cui Bernhard fa l’autopsia al mondo.
“Una festa per Boris” è un guazzabuglio, la caricatura di tutte le disfatte, un empio bordello, un coro di marionette brutali, un convivio di mostri umani soggetti al mondo e dal mondo minacciati continuamente perché continuamente incompresi o passibili di violenza. Ed è l’opera perfetta di preludio al grande concerto bernhardiano, concerto in cui non bisogna concentrarsi sulla voce dominante, sugli assolo o su quello che sembra il tema, perché il punto è cogliere l’insieme, il salmodiare folle collettivo e individuale, l’allucinazione psicologica, il coro umbratile e informe, la vociferazione che non smette mai e dà il tormento. “La letteratura”, diceva Bernhard, “ha moltissimo a che fare con la musica e io considero i miei pezzi di teatro come delle partiture”. Certo, ma partiture che ogni nota tenta però di superare: ci sono esseri umani capaci di farsi sparire da soli per intrattenere gli amici, di moltiplicarsi per tre o di mozzarsi la testa e schiaffeggiarla in aria, ricalzandola poi alla perfezione e sentendosela nuova al punto da “capire meglio la vita” – già nel romanzo “Gelo”, scritto nel 1963 e ambientato nel cupissimo paesotto di Weng, compariva un illusionista che, per divertire il pittore Strauch, si esibiva per lui col suo cavallo di battaglia: far sparire la propria testa. Quanto al capire la vita, nel teatro di Bernhard nessuno capisce niente, eppure la sensazione è che tutti siano ben oltre la comprensione, cioè mille passi più avanti, ma arrivati fin lì a calci nel culo e non certo in gita di piacere. E che si trovino immobilizzati in un territorio disastrato dove la verità li ha tratti solo per farli prigionieri, così che a loro non rimanga che fuggire nella direzione opposta a quella del senso comune e compiuto. Tutti danno in logorroiche escandescenze, e intanto, in un senso di crepuscolo ineluttabile, l’intelligenza è sempre stupida e la stupidità è sempre intelligente. E Thomas Bernhard, questo concerto perpetuo del suo teatro-delirio (che è materia roventissima, capace di incenerire ogni idea di assurdo e di distopia abbiate, peggio se mutuata dalla lettura di qualche romanzetto recente), ce l’aveva tutto in testa. Diceva, “il mondo reale è un mondo dilettantesco rispetto a quello del mio cervello”.
Come per le comete, conta la coda, la scia. E infatti il teatro di Thomas Bernhard lavora anche dopo, anzi, soprattutto dopo, e suona sempre due volte, torna per afferrarti, un po’ come torna un tema musicale il giorno dopo un concerto. Musicista dissonante e fabbricatore di trappole, Bernhard estingue tutto per rigenerare tutto. La matrice teatrale della sua letteratura e quella letteraria del suo teatro si alleano per far girare il motore di questa sua macchina implacabile che ci bersaglia coi fotogrammi della nostra mostrificazione e di tutto quello che coviamo e nascondiamo. E’ il teatro di uno che, del teatro, detestava anche gli attrezzisti, ma era affascinato dalla magnifica aberrazione dei suoi riti. In “Una conversazione notturna” arriva addirittura a ipotizzare di occuparsi della regia di un proprio testo, immaginando di mettere in scena un’opera spaventosa. E di farlo così – dice – “come un pittore butta giù un quadro in un’ora di grazia”.