Un'ode alla lettura, oltre il culto feticistico dei libri
Le nostre vite caotiche che cercano ordine fra gli scaffali delle librerie, fatte di libertà immaginarie ma anche di costrizioni. Il valore delle biblioteche personali e le diverse identità che vi si nascondono dentro
Mai forse come in questi mesi e in questo ultimo anno sono stato immerso nei libri della mia biblioteca domestica, un tesoro accumulato nel corso dei decenni pensando a una specie irreale di futuro illimitato. Comprare e portarsi in casa libri è investire sul futuro immaginario nel quale felicemente li leggeremo tutti essendo finalmente liberi da ogni altro impegno.
Ma tutti quei libri ora sono lì, a rappresentare le fasi successive della nostra vita con i loro desideri di sapere o di evadere e le diverse identità più o meno permanenti costruite dal proprio io, la cosa che ci è più vicina e anche la più misteriosa. Il mistero consiste anzitutto nel fatto che non si riesca a capire chiaramente se la propria identità egoica è una sostanza stabile o è solo una stratificazione di abitudini, quelle nella cui ripetizione quotidiana fronteggiamo il caos, cioè la follia, proteggendo e reinventando nel corso del tempo un ordine nel quale riconoscersi e rifugiarsi.
Il mio io librario temo proprio che goda di privilegi speciali. Non lo lodo, anzi lo temo. E’ lui che mi ha costruito intorno e quasi addosso una muraglia di scaffali confortante ma anche difensiva, fatta di libertà immaginarie ma anche di costrizioni; una specie di esoscheletro o tegumento culturale che rende meno immediato e urticante il contatto diretto con l’ambiente, o diciamo pure con la vita.
Pur essendo nato in una famiglia operaia e cresciuto in uno stretto appartamento a Testaccio, case popolari, in cui non c’era neppure un libro, dai tredici anni in poi, in compenso, ho cominciato io a comprare libri non scolastici e a portarmeli a casa. Fino alla fine del liceo non ne dovevo avere più di qualche decina, ma è negli anni universitari che la mania dei libri cominciò a manifestarsi. La cosa si aggravò gradualmente e naturalmente dopo la laurea, quando si fece chiara la mia incertezza e insofferenza professionale. Non essendo diventato uno specialista, cioè uno studioso coerente e serio di una sola materia, non smettevo e non avrei più smesso di interessarmi da dilettante a troppe cose, letterature moderne e antiche, scienze umane e filosofia, storia sociale e della cultura, delle idee, delle arti… Si capì presto, credo, che il mio esito e destino non poteva che essere il giornalismo culturale. Ed è per questo che mi sono condannato a ricevere “omaggi per recensione” di ogni genere di libri, e qualche volta di libri sui libri, come il recente “Libri, istruzioni per l’uso” (Utet, pp. 219, euro 23) di Alessandro Mari, Ginevra Azzari e Matilde Piran: docente il primo, diplomate le altre due nella rinomata Scuola Holden di Torino, fondata dall’accorto populista culturale Alessandro Baricco, impresario di creatività letterarie multiformi. E’ un libro robustamente rilegato e cucito, sufficientemente erudito e tecnico, nonché scritto in modo diciamo “accattivante”, cioè in soggettiva, come questo articolo, in modo che il lettore sia subito coinvolto e indotto a riflettere sul proprio personale rapporto con i libri.
Perciò, se mi sono messo a scrivere parlando di me stesso, la colpa è anche di Mari, Azzari e Piran. Aggiungo in proposito che appartengo alle due o tre generazioni che sono state educate e istruite per mezzo dei libri, che li hanno amati e idolatrati, li hanno perfino scritti, immaginando di essere letti. Ma presto la rivoluzione digitale ha storicamente spodestato il sogno bicentenario della rivoluzione politica, mostrando che le masse i libri non vogliono leggerli, vogliono semmai scriverli divertendosi con le veloci tastiere dei loro pc. Per i nativi libreschi, quello attuale è perciò un malinconico viale del tramonto.
Non sono mai stato un bibliofilo, né un bibliomane, né propriamente un collezionista. Ora poi i tre quarti dei libri con cui ho a che fare sono quelli che ricevo in omaggio, non quelli che ho desiderato e scelto di comprare, i soli che mi senta moralmente in diritto di possedere. Comunque non c’è dubbio che una biblioteca personale è una collezione, e come ogni collezione, osservò Walter Benjamin in un testo autobiografico, “è tesa dialetticamente tra due poli, l’ordine e il disordine”. Aggiungerei: tra espansione e selezione.
Qui entra in gioco però la nozione fondamentale: non l’oggetto libro, ma ciò che gli dà vita, l’atto di leggere. Devo dire che, non il libro, quanto la lettura è stata il mio tema, la mia fissazione. Il culto del libro è in sé piuttosto feticistico, quando la capacità di leggere e la qualità della lettura sono in pericolo, deperiscono, non hanno luogo e non trovano il tempo necessario. Se i libri sono o diventano oggetti di desiderio, è perché esistono lettori che cercano appagamento, eccitazione, piacere e pace nel leggere libri scritti per essere letti, che meritano di essere letti nelle diverse età e circostanze della vita. Si legge per mettere ordine e fare luce sulla propria vita, magari dimenticandola per un po’. Vedo che in uno scaffale un po’ nascosto della mia libreria sono allineati una serie di volumetti: “L’arte di leggere e scrivere” di Olof Lagercrantz (Marietti 1987), Millelibri. “Ventidue percorsi di lettura” a cura di Bruna Morelli e molti altri (Oscar Mondadori 1991), “I troppi libri. Leggere e pubblicare in un’epoca di ‘abbondanza’” di Gabriel Zaid (Jaca Book 2005), “L’arte di leggere. Aforismi sulla lettura” a cura di Paolo Mauri (Einaudi 2007), “I libri da leggere a vent’anni. Una bibliografia selettiva” a cura di Giulio Vannucci e Nicola Villa (Edizioni dell’Asino 2009) e se proprio volete, il mio “Leggere è un rischio” (Nottetempo 2012). Promemoria: si leggono i libri che meritiamo di leggere. Leggere è un rischio perché è un atto che ci giudica.