Totò in una foto inedita realizzata a Parma nel 1925, ora in copertina di "San Totò" di Paolo Isotta, pubblicato da Marsilio 

I cieli alti di Totò

Pietrangelo Buttafuoco

La sua comicità era un vertice di abbagliante metafisica. Dedicate al genio del principe De Curtis le ultime pagine di Paolo Isotta

Braccia conserte sotto al mento a modo di tibia incrociate. L’occhio sbarrato come a segnalare le orbite svuotate di bulbi e pupille da tempo inghiottite dai vermi. E un sorriso bieco, infine – il vacuo ghigno del Nulla – per rappresentare con la propria capa la morte in persona.

 

Ecco Totò nella pantomima macabra del teschio, ed ecco Paolino nostro che nel giorno 12 dello scorso febbraio s’è fatto trovare dalla cameriera e cuoca, la signora Valentina succeduta da poco alla defunta Immacolata, già storica cameriera e cuoca di casa Isotta. Eccolo, dunque, Paolino nostro: vestito di tutto punto, con una polo grigia abbottonata anche all’ultimo bottone, con sopra di questa un pullover rosso scuro, pantaloni di velluto marrone chiaro e mocassini anch’essi di colore marrone. Palpebre calate, gli occhi sentimentalmente chiusi a fessura e già freddo – piedi a paletta – pronto per il tabuto Paolino nostro perché come noi tutti, e soprattutto lui, è serio e appartiene alla morte. A vegliarlo – prima dell’arrivo della domestica – c’erano San Gennaro, Benito Mussolini e Totò, il principe de Curtis, ovvero il Sommo Comico cui il professore Isotta, professore emerito del Conservatorio di musica di Napoli, in data 18. X. MMXX – giorno del suo compleanno – licenziava un libro a lui dedicato e oggi edito da Marsilio col titolo “San Totò”.

 

Paolo Isotta (Napoli, 1950-Napoli, 2021) che scrive a proposito di Totò non è un eccentrico erudito alle prese col pittoresco bensì il professore – ex cathedra – impegnato in una lectio magistralis o, ancora meglio, in una summa di sapienza e creazione in tema di scienza perfettissima: la comicità di Antonio de Curtis che è, senza tema d’incorrere in blasfemia, vertice di abbagliante metafisica.

 

E già qui, in sede di recensione, si deve essere in disaccordo con Paolino nostro quando di questo suo lavoro, mette sull’avviso il lettore scrivendo “non è un libro scientifico, è una flânerie in quell’universo chiamato Totò”. Proprio no, pecca di umiltà Paolino nostro perché “San Totò”, al contrario, è la cristallizzazione di una metamorfosi, giusto quando con Ovidio – a meno che la scienza sia un’altra cosa – leggendo Isotta trasmutato nell’oggetto del suo studio, si può ben convenire: “La natura col suo ingegno simula l’arte”.

 

Ciascun genio si crea i propri precursori. Un intero capitolo della “Storia della letteratura latina” – quella di Ettore Paratore – è dedicato a Plauto ma sta descrivendo, a proposito dell’italum acetum, Totò. Il Sommo Comico ha solo dieci anni quando Luigi Pirandello dà alle stampe il suo saggio “L’umorismo” per adoperarsi sulla esatta distinzione fra ironia, facezia e – appunto – umorismo “e noi ci accorgiamo”, scrive Isotta, “che Totò è così molteplice da essere anche al tempo stesso un ironista e un umorista”. Se la scienza è dunque chimica, magma materico, onda-corpuscolo, allora Isotta, alle prese con l’arte di Totò – al pari di un Werner Heisenberg con lo studio dell’elettrone – ci porta ad asserire l’impossibilità di conoscere, e con precisione, sia il momento e sia la posizione di un innesco comico totoano nel senso proprio del principio di indeterminazione.

 

 

Ogni battuta – ogni gag – è un’esplosione incontrollata. Impossibile è calcolarne la traiettoria. Arriva fino a Pio XII che ne elogia “la sana letizia popolare” per far ritorno all’imprevedibile pristina crudeltà oltre ogni copione, “nell’invece radicale” – dice Roberto Escobar – “portato alle estreme conseguenze”. Quando Totò giunge alla lettera “o” in una dettatura – quella della lettera dei fratelli Caponi – aggiunge “O come Torino”. Ebbene, dov’è il momento, e dove è la posizione dell’innesco?

 

Dovendo grattarsi la testa, il principe de Curtis, si gratta la bombetta nel crescendo surreale di una marionetta snodabile di giocondo e puro assurdo. E questo è Totò che travalica, nella sua universalità, la stessa Napoli e la stessa Italia. E questo è Paolino che ne attraversa il genio svelandolo a beneficio nostro (a disdoro degli intellettuali che lo disprezzarono Totò, fin sul ciglio della fossa) e a dispetto di Totò stesso, inconsapevole della sua stupefacente arte: “Era immensamente modesto”, così scrive Isotta, “e, come molti hanno dichiarato, non comprendeva la sua stessa grandezza. Onde se n’esce con questa dichiarazione: ‘Credetemi, mai nella mia vita ho avuto l’ardire di paragonarmi a quel genio di Charlie Chaplin’. C’è – ecco la giusta confutazione – da fare solo: Buum!”.

 

 

L’ha sparata proprio grossa su stesso, Totò. Charlot è uno che deve darsi una maschera per far ridere mentre Totò – e lo diceva Alberto Sordi – “non è truccato, ha proprio quella faccia lì”. E nella sua indagine tutta d’indeterminazione, alterando le traiettorie degli elettroni comici intorno alla sempre viva creazione del Sommo, Isotta mette anche in atto una vendetta contro la Cultura col C maiuscolo che vedeva difetti in quelli che oggi sono “un’impareggiabile provvidenza” e che si prostrava ai piedi di un Eduardo De Filippo, “un Pirandello dei miserrimi”.

 

San Gennaro lo sa – e altrettanto San Totò conosce Paolino nostro – non c’è pagina in questo libro dove Isotta non metta i puntini sugli “i” e se di Peppino giustamente chiede una nuova valutazione, il fratello Eduardo, “reputato autore e attore filosofo”, prontamente lo scende dalla croce: “L’attore era diventato sempre più lezioso, manierato, assumendo pur egli pose filosofiche e indulgendo in sempre più lunghe pause. Pretendeva, in Pirandello, di misurarsi con Salvo Randone!”. Un seminario di critica “quantistica”, così può definirsi questo saggio di Isotta sul principe di Bisanzio. Il suo stesso calarsi nell’opera totale del Sommo Comico per studiarlo – e restituircelo in forma di dottrina – non produce, infatti, l’oggettiva indagine letteraria, o un affastellarsi di documenti, piuttosto un vortice di metamorfosi dove ogni frammento, al pari del clinamen induce una deviazione aggregante.

 

Paolino naviga nel web e trova su internet o sulla bibliografia (predilige su tutti il “Totò e Peppino, fratelli d’Italia” di Alberto Anile) l’atomo calzante. Ecco il clinamen, ed ecco l’alta ironia verso se stesso che è propria di un uomo intelligentissimo. Si parla di Camillo Mastrocinque, regista, interrogato da Andrea Camilleri a proposito dell’improvvisazione – e del rapporto sul set – quando si girava con Totò e Peppino: “Andrea, ma cosa mi vieni a raccontare? Che cosa volevi intervenire su quei due? Io mi facevo dire supergiù come avrebbero recitato in scena, stabilivo dove mettere la camera e mi andavo a prendere un caffè”.

 

Ecco il dettaglio tutto metafisico della macchina attoriale che va da sé, in autonomia rispetto al Demiurgo, e Totò che s’invera nel suo Paolino, pargoleggia in facezie – col dito in bocca – perpetua nella non trama della sua opera totale l’urgenza beffarda dell’avanspettacolo. Invece che Pier Paolo Pasolini – ebbene sì, sopravvalutato nella considerazione che si ha di Uccellacci e Uccellini – era Federico Fellini il giusto incastro, avendone di Totò, per come sottolinea Isotta, un’idea celestiale.

 

Eccola: “Arrivò dal fondo della platea, si materializzò all’improvviso e tutte le teste si voltarono insieme come una gran ventata. In un uragano di applausi, di urla di gioia, di gratitudine, feci appena in tempo – è Fellini a raccontare – a vedere l’inquietante figuretta che avanzava rapidissima lungo il corridoio centrale della platea. Scivolava come su delle rotelline, una candela accesa in mano, il frac del becchino, e sotto l’ala della bombetta due occhi allucinati, dolcissimi, da rondone, da bambino centenario, da angelo pazzo. Mi passò vicinissimo, leggero come un sogno, e subito scomparve inghiottito dalle onde del pubblico che si alzava in piedi, voleva toccarlo, trattenerlo. Riapparve ormai irraggiungibile, laggiù sul palcoscenico, in una immobilità catalettica; si dondolava avanti e indietro, in silenzio, leggermente, come un misirizzi, gli occhi che giravano come le biglie della roulette. Poi, di colpo, la funebre cornacchietta suonò sulla candela, alzò la tesa della bombetta e disse a tutti: ‘Buona Pasqua’. Ma non era Pasqua. Era novembre, e la sua voce era quella di un sepolto vivo che chiede aiuto”.

 

Un’aura santa intorno a Totò i cui miracoli sono – ben oltre il conforto della risata – quelli del soccorso, della misericordia e la grazia liberatoria ed eversiva della natura. Paolino nostro che non ha creduto nell’Iddio ma solo ai santi mette il principe de Curtis sugli altari confidando in ciò che il popolino accorrendo ha stabilito al tempo della morte di Totò: “Alla tomba di Santa Maria del Pianto a Napoli lo chiamano Santo Totò, gli rivolgono preghiere, gli chiedono grazie”.

 

L’aura santa che Fellini scorge in Totò assistendo ai suoi spettacoli di rivista si conferma, due giorni dopo il 15 aprile 1967, in quel funerale al Carmine che reitera la tragicità della maschera e che Paolino nostro – lì presente, nell’affollarsi di baci e fiori – fa rivivere nelle prime pagine del libro sovrapponendo al ricordo una tela di Sil’vestr Feodosievic Šcedrin in suo possesso dov’è ritratta la basilica: “La facciata dà sulla piazza del Mercato. Lì, il 29 ottobre 1268, Corradino di Svevia e Federico d’Austria vennero decapitati per ordine di Carlo d’Angiò. Attendevano l’esecuzione giuocando a scacchi. Quindi, oltre a essere intrepidi, avevano avuto la capacità di ridere. Colla sapienza dei morti, oggi sanno la natura anche tragica dell’arte di Totò; e hanno provato piacere che venisse loro congiunto per esequie”.

 

Non esiste maschera che non abbia a essere – nella propria cocente essenza – sudario. L’inevitabilità e l’irrevocabilità del sonno eterno volge in tenerezza: il Nulla che tutto attende porta a parità l’Inferno e il Paradiso che sono solo qua, e non di là. Giacomo Leopardi è di casa a Napoli, il culto delle anime del Purgatorio è sostanza di magia presso Partenope ma non con la celeberrima “‘A livella” si vuol sottolineare questo passaggio, piuttosto con un’altra poesia di Totò recante titolo “’O schiattamuorto”, ovvero il becchino, in cui Paolino nostro coglie la pietas, un refugium per gli sventurati. Eccone un passo: “’A morte, ’e vvote, è come ll’amnistia / che libbera pe sempre ‘a tutt’e guaie / a quaccheduno ca, parola mia / ’n coppa a sta terra nun ha avuto maie / nu poco ‘e pace… na tranquillità”.

 

Passo dopo passo, dalle metamorfosi fino al clinamen, una dolorosa consapevolezza ci riguarda tutti: chi non ha visto Totò a teatro non ha mai visto Totò. Paolo Isotta se lo sente dire dal suo papà quando, tenendolo per mano, lo porta al cinema per vedere i film del Sommo. Coscienzioso, e dunque ben oltre la sua dichiarata flânerie, Paolino nostro ha redatto un repertorio di schede dell’intera produzione cinematografica di Totò descrivendo, annotando, segnalando e – anche – mai omettendo il giudizio sulle pellicole scadenti.

 

Innamorato, devoto, sacerdote di un culto senza mezze misure (come gli disse in tempi non sospetti il maestro Pippo Patanè, “i più grandi italiani del Novecento sono stati Guglielmo Marconi, Luigi Pirandello, Benito Mussolini e Totò”), Isotta chiede e ottiene dall’editore Marsilio la copertina come piace a lui, ed è bellissima manco a dirlo. C’è una foto di Totò realizzata a Parma nel 1925 da Umberto Montacchini, il cui negativo è andato perduto. La nota dell’editore è apoteosi di vero chic: “L’unico esemplare esistente della riproduzione venne acquistato dal grande scenografo parmigiano Carlo Savi e donato a Paolo Isotta. La foto è dunque del tutto inedita e qui riprodotta per la prima volta”.

 

Diciamolo, uno chic così, Adelphi manco se lo sogna. Chi non ha mai visto Totò a teatro non ha mai visto Totò, certo, e a pensarci bene, molti tra noi – anche chi è di mezza età – manco sul grande schermo l’hanno veduto il Sommo Comico. Soltanto in tivù l’abbiamo visto, adesso anche su internet e poi, certo, sulla nostra stessa carne. Come ogni volta capita quando, braccia conserte sotto al mento a modo di tibia incrociate, facendo l’occhio sbarrato – come a segnalare le orbite svuotate di bulbi e pupille ormai inghiottite dai vermi – ci disponiamo a un sorriso bieco. È quel vacuo ghigno del Nulla con cui ciascuno, con la propria capa, recita la parte della morte fatta persona.

 

Post scriptum. Gli è che lavorando a questa pagina, manco il tempo di accendere il computer che questo – sa, alle volte… – si rifiuta alla tastiera. Ogni limite ha una pazienza e, tampoco, ci si attrezza altrimenti: carta e penna. Non la calligrafia inarrivabile di Paolino nostro ma di scarabocchio in scarabocchio per come di certo, eziandio, avrà voluto lui il testo è stato redatto. Adesso non resta che comporre il tutto ma come in Che fine ha fatto Totò Baby? ci si sente reclusi nel manicomio criminale e si è osservati dalla serratura da due infermieri: “E’ un anno che sta scrivendo il suo memoriale”, dicono. Si ode il picchettio sui tasti del computer e chi guarda, infatti, può vedere le mosse di chi scrive, manovra il mouse e raddrizza lo schermo. Solo che il computer non c’è.

 

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