Qui Napoli
Chiude il Gambrinus. Ma "siate certi che riapriremo"
Meglio abbassare le serrande che ridurre a un comune bar con caffè d’asporto il locale più bello del capoluogo campano
“Se domani titolate: ‘Ha chiuso il Gran Caffè Gambrinus’ commettete l’errore degli altri. Siate certi che noi riapriremo”. Ma quando? “Lei sa quando finisce la pandemia? Se lo sa la data sarà quella”. Parola di Massimiliano Rosati, 45 anni, socio coi due fratelli Sergio (Arturo e Antonio) del locale più bello di Napoli. Hanno deciso di tenere abbassate le saracinesche da lunedì 8 marzo, quando la Campania è ritornata “zona rossa”. Il Gambrinus senza avventori nelle sale né tavolini in piazza Trieste e Trento assomiglierebbe a un bar qualsiasi, dove si prende il caffè da asporto nel bicchierino di plastica facendo squallore di se stesso, della storia e della raccontata storia di se stesso.
Sicché, meglio soprassedere dopo le provvisorie riaperture e chiusure che in quest’anno di pandemia il Gambrinus ha sopportato: prima ripresa a maggio, poi a novembre, un altro fermo il 7 febbraio, l’effimera ripartenza fino a lunedì scorso perché il viaggio al termine della “nuttata” sembra riallontanarsi da quel termine di via Toledo semideserta, con la maggior parte dei negozi chiusi, passanti sparuti e solo l’ombra dei turisti che fino a marzo dell’anno scorso affollarono Napoli (“s’assembravano” ancora non usava). Spezzavano il giro della riscoperta e meravigliosa città (non più Grand Tour come nei secoli scorsi ma agréable benché petit) proprio al Gambrinus. Come i capi dello stato prima o dopo i soggiorni alla residenza presidenziale posillipina di Villa Rosebery, come Papa Francesco, Angela Merkel e le loro tazzine di caffè. Per sempre sporche, sarebbero rimaste in vetrina a duraturo omaggio. Non è e non sia il Gambrinus solo “il Caffè del commissario Ricciardi”, quello dei gialli di Maurizio de Giovanni e della fiction televisiva che ne è stillata. Non sia Napoli, ma non lo è, sempre più simile a una plasticosa Venezia che fa il verso a se stessa come è tentata di fare sin da quando al proprio fulgido repertorio musicale aggiunse Funiculì funiculà (la più venduta e meno artistica composizione del maestro Luigi Denza).
La forzata pausa della pandemia ha riconsegnato temporaneamente quelle sale, quei tavolini ai fantasmi di una stupenda borghesia creativa che fu e più non è molto: ai decoratori che dal 1890 ne allestirono gli ambienti, ai pittori che li frequentarono e affrescarono col gusto di una Belle époque che a Napoli fu più bella ed epocale che altrove: Caprile, De Sanctis, Irolli, Matania, Migliaro, Postiglione. Sia restituito il Gambrinus, nell’assenza di turisti, ai suoi vecchi ingegni: Salvatore Di Giacomo, Gabriele D’Annunzio, Matilde Serao ma specialmente a Ferdinando Russo, il quale uscendo a sera dalle sue sale o da quelle del vicino Caffè d’Europa scrutava al pari dei fasti i misfatti della contraddittoria capitale svanita. Sapeva che di fronte a specchi e stucchi, dall’altro lato della piazza, s’affacciava la bottega di foraggi del capo della camorra Ciccio Cappuccio; sapeva quali misteri celasse l’omicidio dell’insignorita Sorrentina, moglie del basista Gennaro Cuocolo, consumato nella declinante via Nardones alle spalle delle eleganti sale, e che erano misteri assai diversi dalla fasulla costruzione del primo maxiprocesso alla malavita della storia.
Numerosi, mai troppo, furono i giornali; le canzoni; i dipinti; le poesie; le drammaturgie; gli amori; le sciantose vere francesi o presunte perché tutto – dall’arte al delitto – era più vivido in quella storia che presto, se san Gennaro acconsente (ma non dice mai no), dovrà ricominciare. Le ombre di Russo, Bracco, Bovio, Scarfoglio e Serao faranno nuovamente posto ai turisti che sono ombra adesso. E al commissario Ricciardi. Ma non vi dolete, che può darsi quei grandi ritrovino ossa e carne in qualcuno. Ci lasciarono – l’uso nacque proprio al Gambrinus – il “caffè sospeso”. Che qualcuno berrà. (Un giorno di questi).