Quando un premio letterario più che al libro guarda all'identità dell'autore
Trans in corsa per il Women's Prize for Fiction. E il testo? Boh! La questione letteraria sta diventando meno interessante della questione di genere
Diciamoci la verità, nessuno è rimasto davvero sorpreso scoprendo per la prima volta un’autrice trans nella longlist del Women’s Prize for Fiction. Un po’ perché i libri semifinalisti sono sedici e una quota del 6,25 per cento da destinare alla correttezza politica è più che accettabile, fa fine e non impegna, garantisce un buon ritorno pubblicitario a quasi due mesi dalla selezione dei finalisti e a eoni di distanza dalla proclamazione della vincitrice (il 7 luglio, chissà che mondo sarà allora). Un po’ perché pochi mesi fa una chiarificazione del regolamento specificava che il premio fosse da considerarsi aperto a “donne cisgender, donne transgender o chiunque sia definito dalla legge come donna o come appartenente al sesso femminile”. La postilla è stata resa necessaria, pare, dal fatto che nel 2019 la longlist comprendesse un’autrice non binaria, Akwaeke Emezi, che stando al Guardian aveva deciso di non partecipare alle edizioni successive perché l’organizzazione aveva indagato sulla definizione del suo sesso in termini di legge e non di autocoscienza.
L’autrice trans selezionata quest’anno è Torrey Peters, americana con due raccolte di racconti alle spalle; parla di sé utilizzando il pronome “she” (Emezi usa “they”) e si divide fra Brooklyn e il Vermont viaggiando su una moto rosa. Pare che il suo Detransition, Baby sia un romanzo d’esordio profondo e allegro, e spiace che quest’espressione di talento cada nel cono d’ombra della sessualità dell’autrice. C’è cascata perfino la presidentessa della giuria Bernardine Evaristo (prima autrice nera in vetta alle classifiche di vendita inglesi e vincitrice del Booker Prize ex aequo con Margaret Atwood, a riprova del momento Cencelli del milieu editoriale britannico), ingarbugliandosi in un commento in cui spiegava che “questo è un premio letterario per donne, e le donne trans sono donne, e…”.
Come sempre la questione letteraria è più interessante della questione di genere. Resto dell’idea che i premi trasformino la letteratura in agonismo assimilando, a tendere, la scrittura alla corsa di conigli. Se proprio vogliamo organizzarli, per intrattenimento delle classi colte o per riempire le pagine culturali con articoli più facili di una solida critica informata, l’unico elemento da considerare dovrebbe essere la qualità del libro (sto cercando di trattenere i miei polpastrelli dalla citazione automatica di Derrida, “Nulla esiste al di fuori del testo”, ma non ce l’ho fatta). A pensarci, spostare invece il baricentro dell’attenzione su chi sia l’autore a discapito di cosa ha scritto è ciò che fanno i clienti che vanno in libreria a comprare l’ultimo libro di (o peggio, il primo romanzo di) qualsiasi vip a caso, personaggio televisivo, calciatore, cuoco, dotato di una personalità che travalica la scrittura e la rende ininfluente. Calibrare un premio letterario sull’identità dello scrittore significa ambire a trasformare il suo libro in libroide.
Un caso non dissimile è quello del Booker Prize, il più importante riconoscimento d’oltremanica. Da un paio d’anni è al centro di una polemica sterile che vuole limitare la partecipazione ai soli britannici, escludendo gli autori stranieri anglofoni (per rendere l’idea: gli statunitensi), senza considerare che gli scrittori non abitano una nazione ma una lingua e che la valutazione di un libro dovrebbe dipendere da ciò che ci è scritto dentro, non dall’indirizzo da cui è stato spedito. O, come nel caso del Women’s Prize, dal bagno pubblico che usa chi lo scrive. E’ però una tendenza di questi tempi, come dimostra il caso eclatante di cui parlava Giulio Meotti venerdì: Marieke Lucas Rijneveld, l’autrice bianca (non binaria) che non è stata ritenuta adatta a tradurre Amanda Gorman, la poetessa nera (binaria?) dell’inaugurazione di Biden. Accomuna questi casi la ricerca di una scorciatoia interpretativa che, anziché passare dal testo, dalle parole, dallo stile, dalla lingua, prende il facile scivolo dell’identità. Un tempo si chiamava ignoranza.