Foto Matteo Rasero/LaPresse

il foglio del weekend

Corpi fluidi

Gaia Manzini

Da Virginia Woolf a Colette fino a Thomas Mann. Da Bowie ai Maneskin. La libertà di espressione è una terza via dell’identità: né maschi né femmine

Le parole sono maschili o femminili: per Missy non c’è una parola. Dice più o meno così Henry Gauthier-Villars, detto Willy, a Colette. Willy ha sposato Colette quando lei era poco più di una bambina; non immaginava che sarebbe diventata una scrittrice e un’intellettuale tra le più importanti in Francia nella prima metà del Novecento. Era la figlia di un vecchio amico e si chiamava Sidonie-Gabrielle, un nome che assomigliava alla sua camicia bianca di pizzo e alla sua faccia pulita. Missy invece era la marchesa di Belbeuf e amava gli abiti da uomo, i capelli corti, le sigarette. Frequentava la mondanità parigina. Le piaceva che le persone la guardassero confuse, indecise se definirla uomo o donna. Quando incontra Missy a un ricevimento, Colette è la scrittrice più famosa di tutta la Francia: ma nessuno ancora lo sa.

 

La complicità di Colette con il marito si basava sul desiderio di condividere non solo l’intimità, ma anche i segreti inconfessabili. Durante le loro notti insonni, aveva raccontato a Willy della sua adolescenza, delle sue pulsioni di ragazza, del suo corpo che cambiava, e Willy – gaudente e pieno di debiti – l’aveva incoraggiata a scriverne. Nasce così l’impudica Claudine, protagonista del ciclo di romanzi che ebbero un clamoroso successo alla fine dell’Ottocento. I libri però sono firmati da Willy. Le autrici donne non vendono, hanno molto meno seguito, è una questione di mercato: è lui a convincere Colette che sia meglio così. Colette si lascia guidare dal marito e in poco tempo arrivano i primi grandi guadagni, gli anticipi per i libri successivi, la programmazione giornaliera del lavoro; ma anche i metodi dispotici del marito. La protagonista – Claudine – è selvatica, spregiudicata e sensuale, ha la freschezza acerba dell’adolescenza. Claudine a scuola, Claudine a Parigi, Claudine amoureuse. In città e in tutta la Francia, si parla solo della protagonista che ha dato voce ai desideri più intimi delle giovani donne. Willy costringe Colette a vestirsi da Claudine: la divisa da scolaretta impertinente e i capelli corti, si fa fotografare con lei seduta sulle sue ginocchia. In poco tempo Claudine diventa un marchio: tutte le ragazze di Parigi vogliono assomigliarle. Colette non avrebbe mai immaginato tanto successo. Finalmente si sente pronta a uscire dall’ombra, a godersi la celebrità. Chiede al marito di firmare insieme i prossimi libri, ma lui glielo impedisce: nega quella possibilità con veemenza tirannica, affastellando scuse, giustificazioni, imponendo il proprio volere. E lei, Colette, inizia a odiarlo. Inizia a capirne l’opportunismo, il maschilismo calcolatore. Si rigira uno dei libri tra le mani: in copertina c’è una ragazza, la testa reclinata, lo sguardo astuto. Presto si libererà definitivamente dell’arroganza del marito. Il quarto romanzo della serie, forse non a caso, s’intitola Claudine se ne va.

 

Missy lo aveva sempre saputo che l’autrice era Colette. Sapeva che l’amica (presto diventerà la sua amante) era un’artista: lo si intuiva fin dal primo sguardo. Diceva Colette che si può fare a meno di tutto: del denaro, del benessere, ma non dello stupore. La vita deve essere uno stupore continuo, una continua rinascita. La ragazza con il colletto di pizzo e le trecce non esiste più. Non esiste più Sidonie-Gabrielle. Al suo posto c’è una donna con i capelli corti e ricci, la giacca da uomo nera, la camicia, la cravatta di raso. In una mano la sigaretta e lo sguardo in tralice, ambiguo, sempre pronto a trasformarsi da un momento all’altro. Sidonie-Gabrielle ha lasciato il posto a Colette. Quella di lei vestita da uomo è una foto del 1909. Non è più la moglie di Willy, non è più una ragazza di campagna. Quegli abiti bellissimi, maschili, sensuali raccontano la sua liberazione.

 

  

 

Maria Luisa Frisa nelle Forme della moda (Il Mulino) ci fa notare come il “travestitismo” sia sempre stato – per tutto il Novecento – un modo per mettere in discussione il genere come costruzione culturale. Il crossdressing era appannaggio solo delle donne. C’era l’idea che con il suo abbigliamento l’uomo dovesse evocare sicurezza, serietà e affidabilità, mentre non era un problema per la donna – più ai margini – essere considerata frivola o superficiale. Per molte donne, però, vestirsi da uomo era un modo di venire accettate come uomini nella società. “La scrittrice George Sand e la pittrice Rosa Bonheur hanno utilizzato il crossdressing per vedere il loro lavoro considerato seriamente”.

 

E se invece non si scegliesse né un genere né l’altro?

 

Per molti anni ho lavorato in un’agenzia di pubblicità, mi fermavo fino a sera tardi, andavo in ufficio nel weekend; ma il frutto di tanta fatica non mi convinceva mai fino in fondo. Per distrarmi compilavo liste di luoghi che avrei voluto visitare, consultavo guide turistiche, fantasticavo su altre possibili occupazioni. In quegli anni, leggevo sempre un magazine di piccolo formato che di solito si trovava nei bar e nei locali e informava su tutti gli eventi in corso a Milano: mostre, concerti, serate, ristoranti. Era scritto molto bene; gli articoli erano brevissimi, ma composti con grande abilità. Pensai che avrei potuto scrivere anch’io qualcosa, perché Milano allora la conoscevo in ogni suo angolo. Mandai una mail alla redazione facendo una proposta. Non conoscevo nessuno e nessuno di loro conosceva me. Pensai che poteva essere un vantaggio e mi firmai POD, ricordandomi di un cavallo che avevo cavalcato da ragazzina che si chiamava Pari O Dispari (un animale talmente lunatico che poteva essere docile come un agnello oppure sgropparti al primo minuto. Non ricordo se fosse maschio o femmina). Il pezzo proposto uscì e poi ne uscirono molti altri con quella stessa firma: POD. Lo avevo fatto per gioco, e in parte anche per difendermi. Se non si sapeva che ero una ragazza, con me si sarebbero potute ingaggiare solo dinamiche neutre. Era una novità, era galvanizzante. Aveva mosso una certa curiosità anche tra i lettori, ma alla fine mi fu chiesto di specificare chi fossi. E la firma diventò Gaia POD.

 

Seduto in disparte nel giardino del Grand Hôtel des Bains, Aschenbach rivolge parole d’amore a Tadzio, che però non è lì per ascoltarle. Luchino Visconti inquadra la figura tremolante di Aschenbach, immerso nella penombra, interpretato da Dirk Bogarde; c’è un’eccitata inquietudine, c’è disperazione e qualcosa di patetico. Morte a Venezia (il film ha appena compiuto cinquant’anni) è il racconto del grande Thomas Mann che ruota intorno a una contemplazione vergognosa e nevrotica. L’adolescente Tadzio che muove il desiderio di Aschenbach è l’incarnazione dell’ambiguità – come ambiguo è il desiderio dell’uomo che tanto lo cerca. Tadzio, che Visconti fece interpretare a Bjorn Johan Andrésen, è di una bellezza quasi sacra, la bellezza degli angeli di cui non si riesce mai a discernere il genere. E’ l’efebo, oggetto d’amore, padrone di un potere estetico misteriosamente inconsapevole.

 

A me puoi dirlo di Catherine Lacey – apprezzata autrice americana, pubblicata in Italia da Sur – inizia da una persona che dorme in chiesa e in chiesa si sveglia attorniata da un’intera comunità. Senza nome, senza passato, senza una provenienza certa: è come un’apparizione. Lo chiameranno Panca, ma nessuno sa dire se Panca sia un ragazzo o una ragazza. Anzi di più, nessuno sa dire qualcosa di preciso di lui/lei. Le domande degli altri personaggi rimarranno senza risposta. E’ un approccio paradossale, quello di Lacey, che denuncia lo schematismo culturale con il quale affrontiamo il concetto d’identità. Panca non risponde a nessuno dei quesiti che gli vengono rivolti, rimane sempre in silenzio. Come definiamo noi stessi, dunque gli altri? “Chissà se solo gli altri possono definire il corpo, il nostro corpo, o se uno dall’interno può cogliere qualcosa di più vero, qualcosa che non si può vedere o spiegare a parole”. La sua diversità innalza Panca sopra gli altri. La diversità è una forma di libertà. Ma la libertà fa paura.

 

Due anni fa al teatro di Vienna è andata in scena per la prima volta l’opera Orlando, scritta e diretta da Olga Neuwirth, una delle compositrici più note dell’attuale scena musicale, basata sul romanzo di Virginia Woolf. La libertà di espressione, l’identità fluida. Orlando mette in discussione ogni dualità, vive l’esperienza di “essere-nel-mezzo”. Nato maschio nell’epoca di Elisabetta I Tudor e suo cortigiano, cambierà sesso e attraverserà quattro secoli arrivando nel 1929. Orlando è la biografia di un eroe che diventa eroina. Il tema non è il sesso, e nemmeno la storia: è la trasformazione; l’idea della metamorfosi, che è sempre coesistenza di un corpo nell’altro, di un genere nell’altro. L’identità è il luogo del fluido e dell’instabile, di mutazioni incessanti, ma anche di elementi inalienabili di continuità. Il maschile è anche femminile e viceversa. Non è un caso che nella trasposizione cinematografica Orlando sia stato interpretato da Tilda Swinton, vera e propria icona della gender confusion.

 

 

 

La trasformazione, la transitorietà racconta l’oggi – forse più l’oggi di ogni altro momento storico. Ci ricorda quello che vediamo nelle manifestazioni più popolari. Achille Lauro mette in scena tutto questo, estremizzandolo in un trasformismo che non è più soltanto tra i generi maschile e femminile; e forse, proprio per questo suo ecclettismo, perde di incisività: la provocazione si fa talvolta caricatura. Nel 1993, Kurt Cobain era apparso sulla copertina di “The Face” con un abito a fiorellini: non c’era nulla di ridicolo. La sua espressione attonita aveva qualcosa di disarmato, ma anche di sensuale: un’ambiguità solo a un passo dall’abbandonarsi ai sensi, senza forzature, senza costruzioni. L’annullamento dell’artificio, ma anche delle regole sociali del genere – di ogni regola.

 

All’opposto c’era stato David Bowie, con il suo fisico scheletrico, gli occhi disuguali e – almeno all’inizio – i denti storti. Non aveva alcuna importanza che si fosse dichiarato gay, era comunque uno degli uomini più sexy del pianeta. Dopo Space Oddity, nel 1971 aveva promosso molto svogliatamente Hunky Dory, perché tutte le sue energie creative erano concentrate su The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars. Era un album eccezionale sin dal titolo, e “giocava con i concetti di sessualità e artificio come nessuno nella musica aveva osato prima” (Sono l’uomo delle stelle, Il Saggiatore). Bowie aveva diciassette anni quando compariva in televisione come opinionista e parlava dei diritti dei maschi con i capelli lunghi. Tutine glitter, body, oppure completi giacca e pantaloni coloratissimi – piaceva agli uomini e anche alle donne. Era e resta un dandy, ed è stato considerato nel 2000 l’uomo più elegante del mondo.

 

Non so esattamente cosa sia l’eleganza, sicuramente quello che ha Bowie nel suo trasformismo e nella sua dichiarata ambiguità è stile. “Stile significa presentazione del proprio sé come un oggetto d’arte tridimensionale da ammirare e da toccare”, scriveva Angela Carter, scrittrice e giornalista. David Bowie ha fatto del suo stile un’espressione artistica, ovvero un modo di raccontarsi al mondo. Precorrendo i tempi.

 

La più giovane delle protagoniste di Ragazza, donna, altro, romanzo con cui Bernardine Evaristo ha vinto il Man Booker Prize nel 2019, dice che il femminismo è superato, ma anche essere donna è superato; dice che il futuro non è né maschio né femmina. Non so se il punto sia questo, so solo che le tematiche della fluidità sessuale sono una prospettiva importante da cui guardare l’oggi.

 

Maria Luisa Frisa spiega nel suo libro come la moda negli ultimi anni si sia mossa per assottigliare le differenze tra maschile e femminile. Fino a quello che vediamo oggi nei ventenni Maneskin, che hanno vinto Sanremo e ci dicono che insieme a loro ha vinto il genderless. E’ la sensualità dirompente in corpi giovani, quasi fossero ancora in transizione. E’ l’assottigliamento tra i generi diverso dall’unisex. E’ uno stile urlato, deciso, che non rinuncia al decorativismo. Viviamo ormai nell’appropriazione incrociata dei caratteri, come negazione e annullamento di limiti e preconcetti: è l’accettazione visiva di quell’ideale parità di genere di cui parliamo molto e in parte stiamo già realizzando. Oggi si va delineando una nuova pagina su cui costruire l’identità.