Alberto Arbasino, ospite della trasmissione Che tempo che fa, nel 2008. E' scomparso il 22 marzo 2020 (LaPresse)

Spazio Okkupato

Quel refuso nel necrologio di Arbasino che coglie il dissolversi del secolo

Giacomo Papi

Bastano due lettere invertite per cambiare il senso di un’intera frase, o di una commemorazione. Nel caso di "Abrasino" però si tratta di un errore rivelatore, degli effetti del tempo e della memoria

I  refusi, a volte, aprono baratri e spalancano orizzonti. Lunedì, per esempio, sulle pagine dei necrologi del Corriere della Sera è apparsa questa melanconica perla: “22 marzo 2020 – 22 marzo 2021. Il fratello Mario con Ursulà, i nipoti Claudia con Fabrizio, Silvia con Abramo, Edoardo con Alessia ed i pronipoti tutti ricordano con immutato affetto Alberto Abrasino nel primo anniversario della scomparsa”.

 

 

L’errore è talmente spettacolare che in molti non l’hanno neppure notato. Il giorno dopo, però, era stato corretto. Benché la colpa sembri dovuta al maledetto correttore automatico, immagino che il correttore di bozze umano sia stato mandato in esilio (anche perché, come abbiamo già calcolato su questo giornale dopo la morte di donna Giulia Maria Crespi, ogni pagina di necrologie frutta al Corriere circa 15 mila euro). Bastano due lettere invertite o tre cancellate per ribaltare il senso di un’intera frase. In una Bibbia del 1631, per esempio, fu sufficiente un “Not” in meno nel Sesto comandamento per incitare a tradire mogli e mariti: “Thou shalt commit adultery”. In “Storia dell’assedio di Lisbona” di José Saramago basta un “Non” aggiunto per dispetto e follia dal revisore Raimundo Silva per cambiare la storia del Portogallo, dell’Europa e quella del protagonista.

 

L’errore può ricordare morti imminenti. È accaduto a novembre alla radio di stato francese Rfi, che per sbaglio ha pubblicato i coccodrilli della Regina Elisabetta, Pelè, Jimmy Carter, Ali Khamenei, Alain Delon, Brigitte Bardot e Jean-Paul Belmondo, Lionel Jospin e Laurent Fabius. È accaduto a gennaio in Veneto a Luca Zaia, che ha mandato un telegramma di condoglianze alla famiglia di un signore ancora vivo: “Carissimi vi sono vicino in questo momento di profondo dolore per la perdita dell’amato A. Condoglianze, Luca Zaia presidente Regione Veneto”. Quando l’errore compare in un necrologio, però, quando Arbasino diventa Abrasino, può essere un’ultima parola sulla vita dell’estinto. Alla prima reazione di incredulità, al primo istintivo sorriso – “il riso è satanico, quindi profondamente umano”, diceva Baudelaire – subentra in chi legge un sentimento più complesso e malinconico, che è una rivelazione su quello che il tempo fa a ognuno di noi, alla potenza abrasiva di un anno soltanto per la memoria di chi, come Alberto Arbasino, per tutta la vita è riuscito a essere contemporaneo.

 

E allora succede che l’intero Novecento si mostri come qualcosa che arretra, che i film in bianco e nero, e i grandi attori, le grandi attrici, i loro vestiti, e i grandi romanzi che fino a ieri consideravamo moderni e per questo eterni, improvvisamente appaiano come storie in costume, e le mode di allora in un istante rivelino che il carattere proprio del nuovo è morire. Alberto Arbasino fu il più contemporaneo degli intellettuali italiani, ma attraversò il Novecento con un’eleganza retrò. Il nuovo lo vedeva prima degli altri e sapeva incontrarlo di persona: raccontò il boom prima del boom, l’omosessualità prima che comprendesse di poter essere gaia e diventasse di moda, fece la dolce vita in Via Veneto prima che la Dolce vita fosse inventata, frequentò e raccontò cosa succedeva a Harvard nel 1959, anche nei bagni dei maschi, segnalò la moda dei bermuda e dei mocassini di cuoio, indicò per primo il peso politico, estetico e sociale della casalinga di Voghera pur essendo di Voghera, vide un concerto dei Velvet Underground a New York prima che Andy Warhol li marchiasse con la gialla banana e capì, infine, che la lite era un ingrediente fondamentale della tv, ma si divertì a far litigare gli intellettuali, mettendo a confronto Nanni Moretti e Mario Monicelli, Susanna Agnelli e Lidia Ravera, Moravia e Sanguineti, Bocca e Montanelli, con la divertita perfidia di un ragazzetto che imprigiona sotto un bicchiere di vetro un ragno e uno scorpione per vedere chi vince. 

 

Riuscì a raccontare il nuovo che appariva proprio perché il suo sguardo, nonostante lo sperimentalismo di “Fratelli d’Italia”, si mantenne sempre ottocentesco, comunque più antico, classico, quasi. Quando negli anni Ottanta Giulio Bollati gli portò in visione le nuove copertine del Saggiatore disegnate da Bruno Munari, Arbasino commentò: “Ma, Giulio, sono scatole di supposte”. In vita fu abrasivo più che abraso, il correttore forse automatico avrebbe potuto scegliere un refuso migliore, e però abrasino coglie qualcosa del dissolversi del secolo e della sua memoria. Sono convinto che Arbasino avrebbe riso e considerato il refuso una chiosa sublime e ironica per la sua frase più famosa, e ormai proverbiale: “In Italia c’è un momento stregato in cui si passa dalla categoria di bella promessa a quella di solito stronzo. Soltanto a pochi fortunati l’età concede poi di accedere alla dignità di venerato maestro”. Dopodiché si diventa tutti abrasini, abrasissimi e poi si scompare.

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