“L'arte politicamente corretta è brutta e organica al grande mercato delle minoranze”
Intervista a Isabelle Barbéris. "L’artista oggi è uno sciamano del Bene che soddisfa tutte le esigenze ideologiche: antirazzista, antisessista, antispecista, ambientalista”
Il cambiamento è iniziato sotto i governi di sinistra in Europa negli anni Ottanta. Fu quando le democrazie liberali, emancipate e prospere, hanno assistito alla crescita di quelli che grossolanamente si iniziarono a definire i “bisogni culturali” dei ceti urbani. “Determinarono il passaggio dalla democratizzazione culturale a un democratismo demagogico, cioè invece di incoraggiare l’elevazione degli spiriti questo nuovo dogma abbassava l’arte e la cultura al livello del narcisismo individuale”. Parla così al Foglio Isabelle Barbéris, specialista in teatro contemporaneo e docente all’Università Paris-Diderot. Se la Comédie Française ha appena ordinato la riscrittura delle opere di Molière per renderle “accessibili”, i musei francesi hanno eliminato la numerazione Romana. La seconda fase arriva dalla fine delle grandi storie già criticate da Jean-François Lyotard. “Tra queste c’è quella collettivista, derivante dal marxismo, dall’educazione popolare, che è stata molto importante nella democratizzazione culturale del XX secolo. I grandi animatori culturali sono stati sostituiti, negli anni Novanta, da attivisti associativi che hanno fatto una grossa sostituzione. Hanno preferito i conflitti di identità, di genere e di razza, alla spinta culturale sociale che poteva poggiare su valori comuni. E’ nata una vera e propria politica ufficiale di discriminazione positiva basata su criteri biologici, il razzismo di stato”. Si arriva alla terza fase. “Il passaggio, nella massima fretta, dal livello militante a quello istituzionale. La maggior parte dei nostri più prestigiosi enti pubblici ha ufficialmente introdotto nel proprio registro una concezione razzista, decoloniale e antiuniversalista della ‘diversità’. La sovversione artistica, storicamente ‘di sinistra’, si è quindi spostata a destra, da quando la sinistra culturale è diventata moralista e conformista. Ma poiché tutti gli artisti, dal brechtismo in avanti, sono chiamati a essere politicizzati e politicizzati a sinistra, questo ha aperto la strada a un vasto allineamento. E una perfetta sottomissione dell’arte ai pregiudizi politici”.
Barbéris ha scritto il libro “L’art du politiquement correct” per capire come l’arte, ma la cultura in generale, sia diventata un mercato ideologico. L’arte contemporanea posseduta dal demone della correttezza politica, l’ossessione per l’inclusione, l’antirazzismo che si trasforma in razzismo anti-bianco, il processo permanente alle opere del passato in nome dell’ideologia alla moda (sessismo, razzismo, omofobia), l’utilizzo di metodi pubblicitari al servizio del progressismo, la giudizializzazione del mondo dell’arte e la sua trasformazione in tribunale morale, il mercato diventato arena contro il “dominio” in una alleanza fra neoliberismo e neomarxismo culturale, il sartrismo della deificazione della missione politica dell’artista, la postura flagellante e l’indignazione affettata che culminano nello snobismo e nel dandismo, ma castrati della propria proverbiale ironia. Così, la Carmen non muore più al Maggio fiorentino per battere il “sessismo” e il “femminicidio”, il Dr. Seuss non viene ristampato in America perché “razzista”, Maometto è tolto dall’Inferno dantesco in una nuova traduzione fiamminga della Divina Commedia, alcune musiche di Debussy sono censurate a New York perché parlano della schiavitù e l’Università di Yale pensiona il suo famoso corso di “Introduzione alla Storia dell’arte, dal Rinascimento a oggi” perché troppo bianco, troppo europeo, troppo maschile, troppo “problematico” L’ex direttore della National Portrait Gallery, Sir Roy Strong, accusa intanto gallerie e musei d’arte di essere prevedibili per non scontentare nessuno. “Sono ossessionati dalla correttezza politica”. Va da sé che praticamente i musei di tutto il mondo, dal Victoria and Albert Museum al Metropolital Museum of Art di New York, abbiamo messo nei magazzini tutte le riproduzioni di Maometto.
E’ una colonizzazione culturale che avviene in nome dell’anticolonialismo. Barberis non usa la parola decadenza, sarebbe scontata, ma siamo lì: “La deglutizione da parte delle classi popolari di immagini ultraviolente in stanze troppo attrezzate e che bombardano lo spettatore con stimoli è simmetrica al consumo elitario di una cultura di pura negatività. L’immaginazione non ha mai prodotto così tanta bruttezza in tutta la storia umana”.
E’ nato un artista ideale. “Soddisfa tutte le esigenze: antirazzista, antisessista, antispecista, ambientalista”, spiega Barberis. “Le sue opere non sono più valide per le loro qualità estetiche, ma per la natura del discorso che deve conformarsi a una serie di denunce e di ‘ruote della preghiera’ sulla ‘resistenza al sistema’, anche se questa posizione di denuncia è il puro prodotto del sistema. Stiamo assistendo a un’inflazione di discorsi sulla colpa, che maltratta il pubblico e dice loro cosa pensare. Questo spaventa le categorie popolari e rende il pubblico sempre più omogeneo, generando tra la gente un preoccupante odio per la cultura. La certezza di essere nel Bene rende i suoi artisti molto vanitosi e aggressivi, si atteggiano a sciamani, salvatori dell’umanità. Il regista Jean-Michel Ribes, ad esempio, ha appena paragonato l’artista a un ‘rianimatore’! Insomma, questo artista molto comune e spesso acculturato pensa di essere ‘essenziale’ anche se ha dimenticato l’essenza stessa della propria arte. Spesso è stato messo in carica grazie a una politica di ipocrita discriminazione positiva, per cooptazione. Riproduce nella sua istituzione la logica del risentimento e dell’abbassamento del suo livello che lo ha portato a ‘riuscire’, perché il contrario lo costringerebbe a riconoscere le proprie inadeguatezze”.
C’è una componente anglosassone estremamente forte e da questo punto di vista sia l’Italia sia la Francia sono sotto l’influenza dei circoli culturali e accademici che arrivano da occidente. “Ma non dobbiamo dimenticare il buon vecchio snobismo europeo. Soprattutto francese. Alla Francia e soprattutto alle sue élite piace pensare a se stessi come a una ‘globalizzazione in miniatura’. André Malraux ha trasferito il suo internazionalismo marxista nella sua visione della cultura: il primo ministro francese degli Affari culturali non era affatto chiaro sulla difesa del patrimonio culturale francese, annegato in una globalismo culturale poststrutturalista. Quindi, ovviamente, l’accesso ad altre culture è assolutamente essenziale per la strutturazione del pensiero e del sensibile, ma quando leggo Malraux, le cui qualità intellettuali sono incomparabilmente superiori ai nostri attuali leader culturali, lo trovo molto spesso confuso. C’è questo vecchio mito, totalmente falso, di un paese che non ha una cultura propria, ma che è la somma di tutte le influenze, la ‘vetrina culturale del mondo’. E risale al XIX secolo, come Walter Benjamin l’aveva sviluppato con straordinaria sottigliezza. E’ una sorta di cosmopolitismo illusorio e nichilista della cultura, nutrito da élite che pensano di vivere in un mondo più ampio, ma che in realtà vivono solo in un piccolo mondo altamente standardizzato e senza sostanza. Gran parte dell’abbassamento del livello culturale deriva dall’acculturazione globalizzata delle élite. Volendo essere tutto, ci esponiamo al rischio di non essere niente”.
L’islamismo ne sta approfittando. “Il teatro pubblico francese non esita a produrre spettacoli che promuovono i Fratelli Musulmani o il velo a scuola. Presenta Mohamed Merah (il terrorista dell’assalto alla scuola ebraica di Tolosa, ndr) come una vittima della società. Vengono aperti istituti culturali che confondono culto e cultura, come l’Istituto di Civiltà musulmana a Lione. Il Palais de Tokyo, che dovrebbe promuovere la sperimentazione e l’emancipazione, onora il Qatar. La drammaturgia vuole ‘decolonizzare i classici’. Per colmare il divario tra Francia e Italia: il recente rapporto sulla ‘diversità’ all’Opera di Parigi decreta che Arlecchino è l’inventore del ‘blackface’ in Europa. Giorgio Strehler dovrebbe preoccuparsi. Le trasmissioni radio in onore degli ‘indigeni’, senza alcuna contraddizione, sono legate come le perle di una collana. Bande di truffatori che attaccano i ‘bianchi’ vengono presentati come ‘decoloniali’ che si vendicano delle sofferenze della colonizzazione… La ‘bianchezza’ delle statue greche nei musei europei è presentata come un grande complotto razzista dell’Occidente ‘bianco’. Questi spettacoli gonfi sono spesso molto divertenti a causa del loro complottismo. Ma il prezzo da pagare, sociale, politico, è catastrofico perché rafforza la sete di violenza”.
Si coopta una visione sovietica dell’arte. “Il nostro tempo odia il simbolico e valorizza l’iperrealismo, la letteralità. Qualsiasi presa in prestito è considerata ‘appropriazione culturale’. Viene esaltata l’estetica del reale. Ciò che è interessante è vedere come l’iperrealismo dell’arte concettuale (Duchamp), che voleva essere depoliticizzato, abbia incontrato l’iperrealismo sovietico, che cerca un’efficacia diretta e comportamentale sullo spettatore e sulla società. Questa concezione dell’arte esiste nei regimi totalitari, ma anche in una concezione marxista mal digerita che riduce completamente l’arte all’ideologia. E’ l’idiozia woke che consiste nel decostruire tutto nella lotta contro l’ideologia, senza vedere che questa decostruzione maniacale è essa stessa pura ideologia! Penso che questo odio per la cultura stia riscuotendo un grande successo perché è l’ultima fase di liberazione degli impulsi programmata dal maggio ’68. L’‘odio virtuoso’, l’‘odio dell’odio’, è un vero sfogo per il nichilismo, un vero e proprio strumento promozionale, imprenditoriale. Apparire virtuoso è sintomo del consumismo sociale, cioè di una società in cui la moralità è diventata un ‘capitale’, non più un valore. Il mio pensiero è totalmente ancorato alla parte della sinistra antitolitaria. Ma la sinistra ha tradito non solo il popolo, ma i propri valori”.
Inclusività e indignazione. “C’è un retroterra alla Rousseau, già sottolineato da Allan Bloom: la società è cattiva, approfittatrice, corrotta... La natura antisociale di questo nuovo ‘artivismo’ è rafforzata dalla crisi sanitaria, che ci sta affidando ai social, dove regna solo un’illusione di democrazia. Ma tutte le forme d’arte partecipative, interattive, in voga da trent’anni, hanno contribuito a produrre questa illusione di ‘società’. Mentre una vera democrazia può funzionare solo con denominatori comuni razionali e culturali. La cultura, ora confusa con l’arte, li sta distruggendo. Considero la cultura ufficiale oggi in gran parte un sistema di oppressione”.
L’intrattenimento è diventato un mezzo per veicolare una ideologia. “L’intrattenimento di un’élite che paradossalmente odia essere intrattenuta o che ama mostrare di non essere intrattenuta. E’ piuttosto perverso. Oggi ci divertiamo andando ad annoiarci. In fondo, stiamo toccando i limiti dell’arte piccolo-borghese. Ma questo odio per la cultura conformista continua a ‘divertirci’ nel senso pascaliano, perché ci rassicura e ci impedisce di vedere il reale. Il progressismo culturale ufficiale è lì per darci la pillola della carenza democratica, adulando identità sintetiche. Identitarismi e multiculturalismo sono i migliori alleati del degrado del nostro quadro di valori democratico e repubblicano, di una globalizzazione selvaggia e spietata, che cerca l’atomizzazione. E’ la vecchia storia dell’alleanza tra la sinistra e la globalizzazione, con il soft power culturale come primo alleato”.
E così, quando tutti sostengono di aver diritto a qualche forma di risarcimento, accampando come minimo un’infanzia infelice, diventa lecito che un artista immerga un crocifisso nella pipì, ma che sia reato anche solo citare la parola “negro” per condannarla. Per “non offendere” nessuno, una grande tela bianca.