Accortezze utili se proprio è necessario scrivere romanzi sulla pandemia
La bellezza salverà il mondo? Sì, e lo faranno anche i vaccini. Ma a patto che i libri sul Covid siano il più possibile obliqui e che non menzionino il virus. La grande letteratura non lavora mai con significati frontali
Come sia potuto accadere che “la bellezza salverà il mondo”, una delle frasi più complesse, ambigue e lessicalmente enigmatiche pronunciate da un personaggio di Fëdor Dostoevskij (si tratta del principe Lev Nikolaevicč Myskin ne “L’idiota”, che non si sa se l’abbia mai pronunciata, seppur nel romanzo se lo chiedano tutti) sia ormai ridotta a una frasetta da assessore di provincia che inaugura un’edizione di miss Agosto in Qualche Posto mentre ringrazia la ditta di insaccati che ci ha messo i soldi, è mistero vasto e senza soluzione, secondo solo all’insistenza con cui, da un anno a questa parte, ci si interroga a destra e a manca su come e in che forma la pandemia entrerà a far parte del “romanzo dei prossimi anni”. Interrogativo appassionante come fissare la vernice che asciuga.
Tuttavia, se la letteratura – che non è un ente astratto, ma è fatta da chi scrive – si approprierà di questa realtà, c’è solo da sperare una cosa: che lo faccia con le armi che le sono proprie, quelle, appunto, della letteratura, e senza abdicare, senza trascinarsi sui binari della più pigra e tediosa pubblicistica d’autore tracimante in melassa che ci è toccato leggere da un anno a questa parte da marzo a marzo, e che nei momenti narrativamente più arzilli canterellava che era tutta colpa, di volta in volta, del turbocapitalismo, della crisi del 2009, del consumo di carne, dello strapotere di Qualcosa, di Qualcuno o di Chissà Cos’altro cui abbiamo dato la colpa negli ultimi trent’anni secondo triti schemi di pensiero e contropensiero, e ovviamente sempre con le medesime parole, le risapute vaghezze, le stesse analisi epidermiche fattesi ormai dermatologiche, giacché tutte basate su eczemi personali e private idiosincrasie. Purtroppo, quando si ragiona del “romanzo dei prossimi anni” in chiave di pandemia ecco che si ragiona nello spettro di queste dermatiti intellettualizzate, mentre – per fortuna – il dispositivo della letteratura non lavora secondo lo storyboard dell’incombente, non travasa significati in scala uno a uno, non accomoda il drappeggio alla realtà e men che meno fa o disfa il nodo alla cravatta del Politicamente Qualcosa.
La letteratura non si serve di materia bruta ma rigenera, ricrea (no, non reinterpreta: non è la serata delle cover a Sanremo) e semmai nasce da, e non va a finire in. In sintesi: se la pandemia rientrerà tra i temi che innerveranno la ventura produzione letteraria – ma potrebbe anche non accadere, conserviamo la speranza – auguriamoci che lo faccia in ottimi romanzi tra le pagine dei quali non se ne parlerà mai, perché, come giusto, sarà soltanto un’ombra, la proiezione sulla parete di qualcos’altro, un refolo che incresperà la superficie di un altro mare – terrorizzante immaginare la letteratura che rinunci a se stessa per piegarsi alle occorrenze moralistiche e d’attualità del lettore multitasking e senza linguaggio, per farsi indignata e dolorista.
Ma cosa c’entra tutto questo con la bellezza di Dostoevskij? C’entra. Perché è sempre una questione di parole. Di utilizzo e lettura superficiale che si fa delle parole, parole che giacciono, loro malgrado, stremate e disidratate al solleone di un’epoca in cui anche la forma linguistica della letteratura sta cedendo e non è più portatrice di ambiguità ma votata alla semplificazione, al senso unico e all’unico senso. Ma la grande letteratura non lavora mai coi significati frontali, perché la verità rivelata della realtà sta nel non darti più nulla da rivelare. Kafka si inventò uno scarafaggio, Melville una balena e Gogol’ un cappotto. Ciò di cui un grande romanzo parla, non è mai ciò di cui parla. La letteratura è la ricchezza sotterranea di un’invenzione aerea: tra l’uno e l’altra – ma solo per sbaglio, solo per essere sbranata e poi trascesa – ristagna la cosiddetta realtà.