L'umanesimo novecentesco critico della modernità è più necessario che mai
Le immagini che si impadroniscono del nostro sguardo
Non sono qui per inventare, ma per ribadire. Nella politica, nei giornali e anche nella cultura, prima viene la verità e poi la creatività. Solo che spesso si deve essere un po’ creativi per capire le cose che vale la pena di ripetere. Nelle scienze dello spirito (chiamiamole così: oggi siamo costretti a chiamare scienza ogni cognizione attendibile) l’audacia non esclude la saggezza, la quale a sua volta non può fare a meno della prudenza, massimo bene secondo Epicuro. Gli studi umanistici, il senso dell’umano, il buon senso e il “common sense” sono ingredienti di una stessa tradizione, che vede tra le parole, le cose e le azioni un legame spesso utile, a volte necessario, sempre onesto.
Dico queste cose con la voce un po’ impostata perché da almeno dieci anni, forse per incoraggiarmi, ho deciso di pensare che il giornalismo su carta stampata può essere visto, se si vuole, come esercizio di riflessione e di cultura, senza il quale i rapporti fra libri e talk-show diventano facilmente più loschi, pubblicitari, omertosi e banalizzanti. Per esempio, un testo elaboratissimo come quello di Matteo Marchesini uscito su questo giornale lunedì scorso sul “romanzo del virus” (chissà perché oggi tutto è “narrazione” e non interpretazione, tutto si “racconta” e non si dice o spiega) è un testo da rivista plurimensile. Più originale e maneggevole di un libro, il suo bersaglio polemico sono libri di grandi o immani pretese, libri che hanno il fondamentale difetto di non essere semplici articoli. I filosofi a caccia di protagonismo politico, secondo il notorio modello parigino che fa di tutto teatro e retorica, credono di dare solidità teoretica alle loro più opinabili opinioni incartocciandosi in categorie generali a cui non corrisponde nessun oggetto preciso e nessuna esperienza reale.
Trent’anni fa, mi venne spontaneo un aforisma che ancora mi piace: “Di qualunque cosa Derrida annunci di parlare, parlerà del modo in cui sta parlando della cosa di cui non parla”. Dedurre da princìpi e concetti onnicomprensivi perché poco empirici e nello stesso tempo credere che la realtà sia solo il linguaggio con cui se ne parla, ha portato i filosofi deduttivisti di formazione teo-onto-bio-politica a credere che il virus pandemico sia un’apparenza senza realtà, un nome senza la cosa: niente altro che l’astuta truffa di organizzazioni statali falsamente liberaldemocratiche che emanando o consigliando norme di contenimento antivirale si rivelano essere dittature totalitarie da abbattere scontrandosi in piazza con la bieca polizia. Sto ripetendo, con ciò, cose già dette. Le riassumo e ribadisco. Ma sempre lunedì scorso trovo anche un’intervista al filosofo francese Olivier Rey, uomo piuttosto equilibrato che da qualche piccolo segno mostra di aver abbandonato la micidiale miscela Heidegger-Foucault per rivalutare giustamente un filosofo in Francia poco frequentato, Günther Anders, autore di un’opera che definisce un’epoca tutt’ora in corso, “L’uomo è antiquato”, pubblicata in due volumi nel 1956 e nel 1980.
Marito di Hannah Arendt, si era scelto lo pseudonimo di Anders, un avverbio che in tedesco significa “altrimenti, in modo diverso”. La frase che Rey riprende da lui e usa bene è questa: “Un tempo, c’erano le immagini nel mondo, oggi c’è il mondo in immagini”. La cosa più pericolosa, precisa Rey, è che le immagini dominanti negli anni Duemila su schermi e display non sono immagini ferme come quelle fotografiche e pubblicitarie a cui pensava Anders, ma le immagini mobili, il cui potere di attrazione i nostri occhi umani non riescono a contrastare. Questo ha relegato la nostra capacità di visione, anche delle arti visive, in un angolo buio. Guardare un quadro o perfino una bella foto su carta ci è diventato quasi impossibile, perché sono immagini che non si muovono ed è la nostra attenzione consapevole e volontaria che deve far muovere gli occhi nell’esplorazione di quello che guardiamo.
Discutendo con il suo amico Gustav Janouch, una volta Kafka disse che non amava il cinema: “Si tratta di un giocattolo grandioso, ma io non lo tollero, forse perché sono troppo visivo. Io vivo con gli occhi, e il cinema impedisce di guardare. La velocità dei movimenti e il rapido mutare delle immagini ci costringono continuamente a guardare oltre. Lo sguardo non si impadronisce delle immagini, ma queste si impadroniscono dello sguardo e inondano la coscienza. L’occhio finora era svestito e il cinema gli mette addosso un’uniforme”. L’umanesimo novecentesco critico della modernità ci è più necessario che mai. Se ci crediamo oltre, è solo perché non guardiamo più indietro.