Soffriva di calcoli renali
Montaigne in Italia per un viaggio di dolori e meraviglie
A Roma è pervaso da un totalizzante senso di piacere. Assiste all'impiccagione di un noto malfattore e incontra Papa Gregorio XIII: “Un bellissimo vecchio”
Il dettagliato e pettegolo diario di un pellegrinaggio dell’autore degli Essais tra le città termali, nella speranza di essere liberato dal suo male. Il giallo che accompagna l’estensore del voyage
Grandioso trompe-l’oeil il viaggio in Italia compiuto da Montaigne tra il settembre 1580 e il novembre 1581. Il “resoconto” di questo celebrato tour venne pubblicato per la prima volta nel 1774 come “Journal de Voyage de Michel de Montaigne en Italie, par la Suisse et l’Allemagne”, con l’indicazione “A Roma, Et se trouve à Paris chez Le Jay, Librairie, rue Saint-Jacques”, con una nota di Meusnier de Querlon. L’edizione era dedicata a Monsieur le comte De Buffon. Ora, tutta questa ostinazione a descrivere la prima edizione a stampa del viaggio Italia del sommo autore degli Essais, che somiglia in prossimità alla scheda di un bibliofilo tignoso, ha l’aureo onore di fungere da introibo a un supercitato testo che non sembra del tutto di colui che in frontespizio risulta esserne l’autore. Il resoconto del viaggio in Italia di Montaigne avrebbe avuto un collaboratore. Un alter ego. Anonimo. Unica tangibile traccia, la grafia sul manoscritto originale. Assolutamente di sconosciuta mano. Chi era costui la cui presenza affiorò con la propria scrittura in maniera così evidente, alternata a quella di Montaigne, quando nel Settecento lo scartafaccio dell’opera fu rinvenuto e ne fu decisa la stampa? All’originale brogliaccio mancavano alcune pagine iniziali. Su quei fogli strappati via chissà da chi e chissà quando avrebbero recato e svelato il nome e il mistero del “coautore”?
Nella recente ristampa dell’opera (Michel de Montaigne, “Viaggio in Italia”, a cura di Irene Riboni, ed. La vita felice, 400, pp. € 19,50 euro) nell’introduzione, a proposito del “coautore” del celebre journal, Armando Torno rievoca le ipotesi già avanzate nel 1774 da Meusnier de Querlon nella prima edizione. E cioè che il misterioso e parallelo redattore avrebbe potuto essere un letterato scarso di mezzi, adattatosi a scrivano o comunque attendente di notabili con, nel per lui la “fortunata” occasione di compiere un viaggio in Italia senza dover spendere di tasca propria. A quanto viene vagheggiato non dovette trattarsi neppure di un amanuense che scrivesse sotto dettatura giacché certe pagine sono l’esatta proiezione del punto di vista di chi sta vergando la pagina. In cambio di aggregarsi alla comitiva in partenza l’anonimo scrivente doveva essersi mutato in una specie di famiglio, un tuttofare, impegnatosi oltre a resocontare il diario d’ogni giornata di viaggio, a individuare e fissare alloggi, curare i bagagli, passabilmente anche occuparsi dei cavalli. Un prezioso domestico da esportazione che appena arrivati a una località prevista per la sosta si informava sui prezzi degli alloggi e del vitto. L’anonimo è comunque uomo colto, in grado di osservare città, paesaggi, assistere compunto agli incontri della viaggiante nobile compagnia con illustri personaggi e, anche in possibile veste di segretario: “avventizio doppio” di Montaigne, affidare poi alle pagine del cahier de voyage fatti e discorsi, aggiungendovi liberamente anche commenti e proprie impressioni. Resoconti da cui affiorano, oltre alle cose viste e gli incontri con personaggi, curiose eccentricità.
La prima parte del manoscritto è vergato con la grafia dell’anonimo che guarda e descrive, anche con “casuali” punte di sottile ironia, l’illustre signore di cui è “assistente nel viaggio” (e chiamiamolo così). Si abbandona a decantare i paesaggi, vede i mulini ad acqua, le usanze delle popolazioni... Fors’anche goloso è gustosamente attratto dai girarrosti... Altra parte del journal, dal soggiorno romano in avanti, è sicuramente di mano di Montaigne. L’eccezionalità dell’insieme è che, in alternanza con la lingua francese, oltre un terzo del testo è scritto in italiano.
Allora, a questo punto, bisogna pur dirla la ragione di una viaggio del genere, compiuto da Michel Eyquem e durato oltre un anno. Il signor De Montaigne desidera soggiornare in varie città termali nella speranza di liberarsi dal male della pietra che lo tormenta. Si congeda dalla moglie Francesca di Chassaigne e dai familiari. Nel viaggio non sarà certo solo: con lui partono il fratello Bertrand signore di Mottecoulon, il signore di Casalis e Charles d’Estissac. Ciascuno con il proprio servidorame, muli e bagagli. Si avviano... i signori a cavallo, i servi a piedi. Montaigne è il decano della piccola carovana che si mette in viaggio il 5 settembre 1580. Prima di entrare in Italia la comitiva di questi originali esploratori compirà un lungo giro di settimane attraverso la Svizzera e la Germania, su un ideale itinerario determinato dalla città d’acqua, i luoghi termali dove Montaigne sperimenta le cure per liberarsi dai calcoli renali, spesso senza esito come a Plombières dove la compagnia sosterà per undici giorni. Dalle città svizzere e tedesche visitate si percepisce la strategia degli spostamenti verso luoghi ove Montaigne spera di trovare giovamento al suo disturbo, anche se l’umano mondo che ha modo di osservare lo attrae e incuriosisce. Dedicandosi anche ad assaggiare cibi che non conosce... Poi, attraverso il passo del Brennero, l’Italia.
“Sono alla verità un grandissimo ornamento alli edifici d’Italia le volte alte, belle e larghe. Rendono piacevoli et onorate le entrate delle case, perché tutto il basso è edificato di così fatta struttura, con le porte larghe et alte. A dire il vero, per tutto dove io mi son fermato in Italia, Firenze e Venezia (dove fummo in una casa troppo pubblica e sconcia, avendo a starci poco tempo), ho sempre avuto alloggiamenti non buoni solamente, ma eziandio dilettevoli. La mia stanza appartata: non mi mancava nulla: senza impaccio o disturbo veruno. Perché le cortesie sono sazievoli e noiose tal volta, pochissime fiate veniva a essere visitato da i paesani. Dormiva, e studiava a mia posta: e quando voleva uscire aveva per tutto conversazioni di donne o d’uomini; co i quali poteva star a diporto qualche ora del giorno: e poi botteghe, chiese, piazze. E mutando sempre paese, non mi mancava materia di che pascere la mia curiosità... Non ho trovato in Italia un solo buono barbiere a tosarmi la barba et il pelo”.
A Venezia incontrerà Veronica Franco, che gli offrirà in omaggio il suo appena uscito “Lettere”, vita privata dell’autrice intrecciata al vivace scenario civile e intellettuale di Venezia. Pur lusingato da tale omaggio, trovò la città meno ammirabile di quanto sperasse. Con il “controcanto” del” “anonimo cronista”: “Non lo vidi, il signore di Montaigne, mai stanco né lo sentii mai lagnarsi dei suoi dolori, avendo lo spirito, e durante il cammino e all’albergo, così attento a ciò che incontrava e cercando tante occasioni per intrattenersi con gli stranieri, che credo ciò lo distraesse dal suo male. Quando ci si lagnava con lui perché conduceva spesso la compagnia per vie e per paesi diversi, ritornando spesso, come faceva, molto vicino a là donde era partito (ciò che faceva o perché era stato avvertito di qualche cosa degna di essere vista, o mutando parere secondo le circostanze), rispondeva che quanto a lui non era diretto che là dove si trovava e che non poteva sbagliare né mutare via non avendo altro progetto che quello di girare per luoghi sconosciuti”.
Montaigne doveva intuire qualche mugugno da parte della carovana che lo seguiva senza meta. I suoi compagni, giovani nobili ben lontani dal condividere i godimenti e le impressioni di viaggio del “capogita”, volevano arrivare il più presto possibile a Roma per trovare coetanei, abbandonarsi ai divertimenti e ai piaceri della vita. E dovevano ascoltare, mettiamo con distratta cortesia, le digressioni e le riflessioni del signore di Montaigne. Inevitabile, certo non confessata, una diffusa stufaggine nella compagnia, perché lui, oltre alla contemplazione del mondo, della vita, dei paesaggi e dei costumi era anche preso dal proprio central problema.
“Andai a dormire all’uscir dalle Terme dei Bagni di Lucca e dopo cenai con un’insalata di limone zuccherato, senza bere. Durante questa giornata non bevetti una libbra e credo che se ne avessi fatto il conto fino al giorno dopo, avrei, con questo sistema, mandato fuori presso a poco l’acqua che avevo inghiottita. E’ una sciocca abitudine quella di star a raccontare quel che si piscia. Non mi trovavo male, anzi mi sentivo forte come negli altri bagni, per quanto fossi preoccupato vedendo che non buttavo la mia acqua, ciò che per caso mi era avvenuto anche altrove. Ma qui ne fanno un incidente mortale, e fin dal primo giorno, se voi mancate di rendere le due parti almeno dell’acqua trangugiata vi consigliano di abbandonare la cura o di prendere una medicina. Quanto a me, se devo dare un giudizio di queste acque, esse non mi sembrano né troppo nocive né troppo utili, non è che paura e debolezza; e si deve più temere che riscaldino che non che purghino i reni, e io credo che mi occorrano acque più calde e aperitive. Il giovedì mattina ne bevetti cinque libbre, temendo di aver poco effetto e di non smaltirle. Mi fecero andar di corpo e orinar molto poco. Il giovedì alle cinque, mentre pranzavo, non smaltii che il quinto di quel che avevo bevuto. Che cosa vana è la medicina! Io dicevo, incidentalmente che mi pentivo di essermi purgato tanto, perché ciò faceva sì che l’acqua, trovandomi vuoto, servisse di alimento e si fermasse. Ho appena conosciuto un medico famoso chiamato Donati, autore di un libro intorno a queste acque, in cui consiglia di pranzar poco e di cenar di più: siccome continuai a bere il giorno dopo credo che la mia supposizione gli serva. Il Sabbato 21 d’ottobre alla mattina mi si spinse fuora un’altra pietra, la quale si fermò un pezzo nel canale, ma n’uscì pure senza dolore, e difficoltà. Questa era più tosto tonda che altamente, dura, e massiccia, aspera pure e rozza, bianca dentro, e rossa di sopra, assai più grande ch’un grano. In quel mentre buttai tuttavia arenella. Di qui si vede, che di se stessa la natura si scarica alcune delle volte; e si sente come un flusso di questa roba… Il giovedì a buona ora mi venne a trovare Guglielmo Felice Ebreo medico, il quale mi diede un gran discorso dell’ordine del mio vivere sopra il soggetto delle reni, ed arenella. In quel punto mi partii: e mi riprese la colica, la quale mi durò tre o quattro ore. Al capo delle quali mi accorsi chiaramente con un grandissimo dolore del pettignone, del cazzo, e del culo, che la pietra era cascata”. Nota inequivocabilmente autobiografica di Montaigne.
Dopo alcune pagine affiora il fantasmatico “doppio scrivente”. Era presente alla colazione che relaziona o il “suo padrone” si era preoccupato di raccontargli come s’era svolto il ricevimento affinché ne restasse traccia nel journal?
A Firenze “i Signori d’Estissac e de Montaigne furono a colazione dal Granduca, come viene chiamato [Papa Pio V aveva insignito Cosimo I de’ Medici e i suoi discendenti del titolo di granduca e serenissimo]. La moglie del Granduca era seduta al posto d’onore [si tratta di Bianca Cappello, veneziana, antica favorita del granduca Francesco I e sua seconda moglie nel 1578]. Accanto al Duca la cognata della Duchessa e a seguire il fratello della Duchessa [Vittorio Cappello] marito di questa. La Duchessa secondo il gusto italiano è molto bella: un volto gradevole e paffuto, il petto grande da cui si emergono ampi seni… Il Duca è un grand’uomo nero dalla corporatura, forte e massiccia; ha grosse braccia, il volto e il comportamento di gradevole condiscendenza. E’ un uomo di quaranta anni. Dall’altra parte del tavolo era il Cardinale [Ferdinando de’ Medici che succederà al fratello come Granduca di Firenze] e un altro giovane di diciotto anni [Pietro de’ Medici], entrambi fratelli del Granduca. Al Duca e a sua moglie si recano le bevande in un vassoio dove vi è una caraffa colma di vino e una bottiglia di vetro piena d’acqua. Essi prendono la caraffa del vino e ne versano dentro a un bicchiere quanto è di loro gradimento, e poi lo riempiono d’acqua”.
Più avanti il ritmo della scrittura muta. Lo stile? Il “segretario” era della partita oppure il memoir , mutati i punti di vista, il modo di guardare e percepire il paesaggio, è passato alla mano di Montaigne?
“Partimmo l’indomani mattina e viaggiammo per un po’ tra colline varie, popolate e coltivate. Proseguimmo verso destra per circa due miglia e arrivammo a vedere un palazzo che il Duca di Firenze ha fatto costruire da dodici anni ed ha impiegato tutti i suoi cinque sensi per abbellirlo. Di qua si ha la veduta su molte colline che è la caratteristica di questa contrada. La casa si chiama Pratolino [la villa di Pratolino era stata costruita dal Buontalenti per il granduca Francesco I de’ Medici a partire dal 1573]. La costruzione, vista da lontano non impressiona, ma da vicino è assai bella, ma non più bella che le nostre in Francia. Ci dicono che ha centoventi camere ammobiliate. Ne vedemmo dieci o dodici delle più belle. I mobili sono gradevoli, ma non magnifici. C’è del miracoloso in una grotta a più anditi: questa parte di villa supera tutto ciò che abbiamo visto prima. La grotta è incrostata e modellata dappertutto con il riuso di materiali trasportati appositamente qui dalle montagne. Non vi è soltanto della musicalità e armonia che si percepisce dallo scorrere delle acque ma di più il movimento di svariate statue che l’acqua lambisce”.
Dopo l’ostinato e lungo avventizio girovagare imposto da monsieur capogita, il 30 novembre 1580, con passabilmente appagata l’ipersperanza del giovani della brigata, varcava la porta del Popolo, la comitiva finalmente entrava nell’agognata Roma. Il solerte anonimo famiglio scrivente individua un alloggio alla locanda dell’Orso: due giorni, il tempo per trovare a comodo dell’ensemble viaggiatorio la sistemazione in un appartamento di via Monte Brianzo: la “residenza” del signore di Montaigne per tutto il soggiorno romano. Nel frattempo s’erano sottoposti alle formalità. Al controllo dei bagagli tutti i libri era stati messi sottosopra. Furono sequestrati i due volumi degli Essais che Montaigne aveva con sé: gli saranno restituiti soltanto il 20 marzo dell’anno dopo. Censurati.
Sistemata e a posto con l’autorità la compagnia era pronta a “vivere” l’agognata città.
“Le chiese di Roma sono meno belle che nella maggior parte delle città d’Italia e, in genere, in Italia e in Germania meno belle che in Francia. A San Pietro, all’ingresso della nuova chiesa, si vedono bandiere appese come trofei: la scritta dice che son bandiere tolte dal Re agli Ugonotti; ma non specifica né dove né quando… Al ritorno da San Pietro incontrai uno che mi avvertì, con molta cortesia, di due cose: che i Portoghesi facevano la loro ‘obbedienza’ la settimana della Passione, e poi che in questo stesso giorno la visita era a S. Giovanni Porta Latina, nella qual chiesa alcuni anni prima certi Portoghesi avevano formato una strana confraternita. Durante la messa si sposavano fra uomini con le stesse cerimonie che noi usiamo per i nostri matrimoni: facevano la Comunione assieme, leggevano il medesimo Evangelo nuziale e poi dormivano ed abitavano insieme. Gli esperti romani dicevano che, siccome l’altra unione di uomini con donne era resa legittima solo dalla circostanza dello sposalizio, a questa brava gente era parso che anche quest’altro atto sarebbe divenuto legittimo allo stesso modo, qualora l’avessero autorizzato i riti e i misteri della Chiesa. Otto o nove Portoghesi di quella setta vennero bruciati vivi”.
A Roma, coinvolto dal carattere universale e internazionale di una città assolutamente unica, Montaigne è pervaso da un totalizzante senso di piacere. Visita la Biblioteca Vaticana facendosi affascinare dai codici e dagli antichi cimeli. Si fa abbagliare dalla lussureggiante bellezza dei giardini vaticani. Non tralascia nulla: le conversazioni delle cortigiane lo interessano al pari dei sermoni e delle discussioni teologiche. Assiste all’impiccagione di un famoso malfattore. Ottiene udienza dal pontefice Gregorio XIII.
“Il ventinove Dicembre il Signor d’Abein, che era allora Ambasciatore, gentiluomo studioso e molto amico da gran tempo del Signor di Montaigne, fu del parere che questi dovesse andare a baciare il piede al Papa. Il Signor d’Estissac con lui salì sul cocchio del detto Ambasciatore, e quando questi si fu recato alla sua udienza, li fece chiamare dal cameriere del Papa. Trovarono il Papa e con lui l’Ambasciatore solo come è costume: egli tiene presso di sé un campanello e lo suona quando desidera che qualcuno venga da lui. L’Ambasciatore era seduto alla sua sinistra col capo scoperto, poiché il Papa non si scopre mai davanti a chicchessia, né alcun Ambasciatore sta presso di lui col capo coperto. Il Signor d’Estissac entrò per il primo, dopo il Signor di Montaigne, indi il Signor di Mottecoulon e di Hantoi. Dopo aver fatto un passo o due nella camera, a un lato della quale il Papa è assiso, quelli che entrano, chiunque siano, pongono un ginocchio a terra e aspettano che il Papa, come fa, impartisca loro la benedizione: dopo di ciò si rialzano e vanno fin quasi a metà stanza ... A mezza strada si pongono ancora in ginocchio per ricevere la seconda benedizione. Fatto questo, vanno verso il Papa fino ad un folto tappeto, sette o otto piedi più avanti, che gli è steso dinanzi, al limite del quale si mettono in ginocchio. Il Papa con viso cortese rincuorò il Signor d’Estissac nello studio e nella virtù, e il Signor di Montaigne a voler continuare nella devozione che aveva sempre nutrito per la Chiesa e per il servizio del Re Cristianissimo e aggiunse che egli, ove potesse, li avrebbe serviti volentieri: sono modi di dire italiani. La lingua del Papa è l’italiano con accento bolognese che è il peggior dialetto italiano, e poi per natura, ha la parola poco facile. Per il resto è un bellissimo vecchio di più di ottant’anni, di media statura e diritto, il viso pieno di maestà con una lunga barba bianca, sanissimo d’età e vigoroso quanto è possibile desiderare, senza gotta, senza colica, senza mal di stomaco e senza nessuna infermità. E’ di natura dolce e si preoccupa poco degli affari del mondo: gran costruttore, per cui lascerà, a Roma e altrove, in singolare onore la sua memoria: grande benefattore oltre ogni dire”.
Gregorio XIII è noto per la riforma del calendario. Fatti gli opportuni calcoli, per rimettere a posto “la progressione del tempo universale”, con la bolla Inter gravissimas il Pontefice aveva stabilito che al 4 ottobre 1582 avrebbe fatto seguito il 15 dello stesso mese e dello stesso anno, “eliminando” di fatto undici giorni. Montaigne si chiederà chi mai gli avrebbe restituito quegli scomparsi giorni.
Il 19 aprile 1581, all’ “ognun per sé” la compagnia dei viaggianti si scioglie. Montaigne lascia Roma. Solo, con i suoi domestici. Reca orgogliosamente con sé il diploma di cittadino romano ottenuto dopo insistenze e solleciti. Ha anche il manoscritto del journal, documentazione del suo viaggio in Italia che completerà da se medesimo. Dalla metà di febbraio l’anonimo segretario, lo scrivente più che diligente, era sparito. Forse resterà a Roma. Nessuno è in grado di scoprire che fine abbia fatto. L’unico cenno a lui è un appunto sul diario di mano di Montaigne: “Avendo congedato quello dei miei uomini che disimpegnava questo bel compito, e vedendolo già innanzi, qualunque sia il disturbo che mi reca, bisogna che lo continui io stesso”.