Una pasqua di danza
Dall’Antico Testamento a oggi, movimenti e coreografie hanno costruito l’identità ebraica. Arriva Pèsach e si balla
Arriva Purim e si balla; arriverà Pèsach, dalla sera del 27 marzo, e si ballerà. Parliamo in ostrogoto? Ma no! I due termini, più o meno famosi come shalom, che significa pace ma viene comunemente usato al pari di saluto, ci dice che ci troviamo in ambito ebraico. Una sfera in cui la danza e soprattutto il corpo nella sua accezione fisica e spirituale, è elemento identitario della tradizione. Lo assicura Elena Lea Bartolini De Angeli, esperta di Giudaismo ed Ermeneutica Ebraica presso diverse facoltà universitarie, autrice di testi, ma anche di molti seminari organizzati da “Lev Chadash”, una comunità della “World Union for Progressive Judaism”. L’assunto di partenza dell’empatica e fulva Elena Lea in “Danza ebraica o israeliana - La danza popolare nel farsi dell’identità del Paese” (Effatà,Torino, 2012) è che il popolo ebraico ha danzato e danza in continuazione nelle piazze e nelle case, nei templi e nelle sinagoghe a scopo liturgico, ma anche ludico e festivo. Noi facciamo una certa fatica nell’identificare le strazianti immagini dei corpi esangui e infine sterminati nei campi di concentramento con l’arte che più di ogni altra richiede forza muscolare, energia, e joie de vivre. Eppure, se ci fermassimo a queste immagini di morte non andremmo né avanti né indietro; invece il nostro viaggio parte dalla Torah e giunge, in estrema sintesi, alla variegata realtà della danza israeliana odierna, popolare e non, in omaggio all’imminente celebrazione di Pèsach, la Pasqua ebraica che celebra la figura di Miriam.
Dopo il passaggio nel Mar Rosso la sorella di Mosè, cantò, ballò, suonò il tamburello e incitò le altre donne a imitarla. Distaccandosi dalle compagne, Miriam girava su se stessa, ma soprattutto ondeggiava come i flutti del mare: un movimento (detto shoqeling) non poco sensuale, consentito da una preghiera in cui il corpo è tutto sacro. Nel Tanakh, che contiene i primi cinque libri (Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio) dell’Antico Testamento, ovvero la Torah più neviim (profeti) e khetibim (scribi) una dovizia di particolari descrive chi balla. In prima fila le donne, soprattutto quando arriva Davide. Non pensiate al ragazzetto pallido e pensoso che fa penzolare la testa di Golia, nell’ipnotica quanto struggente immagine del Caravaggio. Da giovane Davide era più che attraente: occhi verdi, viso incantevole, figura slanciata. Nelle danze estatiche e di adorazione si presentava seminudo: coperte le sole pudenda. Davanti all’Arca dell’Alleanza, invece, il monarca d’Israele nella seconda metà del X secolo a.C. è sempre possente ma in età matura: seguito dal popolo saltella a piedi uniti, a piedi alterni e rotea le braccia con forza ed energia. Quando finalmente l’Arca che conteneva le tavole della legge date da Dio a Mosè, trovò una casa in muratura a Gerusalemme, ecco apparire la danza a due cori: il tempio aveva due atri, uno per le donne, l’altro per gli uomini e i Leviti (sacerdoti) suonavano per entrambi. Fuori del luogo divino, la distinzione di genere si scioglieva in movimenti di gioia e corteggiamento. Per “Kippur” – ricorrenza, tuttora celebrata per purificarsi dai peccati, come i sacrileghi girotondi attorno al vitello d’oro, costruito durante l’assenza di Mosè, salito sul monte Sinai – le ragazze di Gerusalemme uscivano in abiti bianchi e ballavano il bakramim tra i vigneti.
Ogni festa scomparve durante il lungo assedio romano di Gerusalemme e il conseguente crollo del tempio nel 70 d.C. Anzi morti e distruzioni portarono alla prima diaspora dei giudei e all’inizio di un fase storica di passaggio. Fase assai delicata, soprattutto in Europa, con il sopraggiungere di divieti rabbinici (niente più canti nelle sinagoghe), ma anche cristiani, per evitare, durante le celebrazioni di piazza, scontri tra ebrei e non ebrei. I primi, nell’Alto Medioevo, si riversarono nelle case e nei ghetti; diventarono maestri di ballo facendo nascere scuole aperte a tutti, in barba ai divieti, tra i quali mantennero quello legato ai balli di coppia, consentiti solo ai congiunti e con il tramite di fazzoletti o di guanti. Sembra di essere nell’odierno buio teatrale pandemico, per giunta solo in video-streaming…
Le danze bibliche si trasformarono: il cerchio tradizionale, attorno a un luogo sacro, divenne, per mancanza di spazio, un semicerchio; con andamento per file parallele si saltellava ma cercando il cielo, in verticale. Gli ebrei più religiosi si muovevano con il supporto della voce, del battito delle mani, dello schioccare delle dita. Sino a che un geniale monaco cristiano, Guido D’Arezzo, s’inventò non solo il tetragramma, precursore del pentagramma, ma per ricordare le note musicali se le annotava sulle cinque dita. In un trattato di Juda ben Isaac del XIII secolo esiste una versione ebraica della “mano guidoniana”, molto utile a chi non poteva usare strumenti musicali e rarità di una ricerca rivoluzionaria che appare tale al primo sguardo. Siamo ormai all’inizio del XV secolo: tra luci e ombre tutte le arti sembravano vivere un nuovo umanesimo. Che fanno gli ebrei? Diventano tra i più richiesti insegnanti di ballo presso le corti rinascimentali. Nell’epoca dei trattatisti italiani che si inventarono il proto-balletto, destinato a diventare ballet de cour dal Re Sole, in Francia e poi vero e proprio balletto, si impose Guglielmo Ebreo da Pesaro (1428-1484c.). Allievo del geniale Domenico da Piacenza, prestò servizio in molte corti italiane, fra le quali quella degli Sforza a Milano con il nome di Giovanni Ambrosio, dopo essersi fatto battezzare per agevolare la sua carriera. Nel 1463 scrisse un trattato, De pratica seu arte tripudii vulgare opusculum, che lo rese famoso nel mondo, nel quale insistette sull’arte del danzare rispettando però valori e norme etiche che mutuò sottotraccia dall’ebraismo. Conversione opportunista: nel suo trattato spiccano la Piva, il Salterello, il Passo doppio; per il trattatista da Pesaro la danza va oltre la danza in sé, è gesto di preghiera; ha un orizzonte etico e non d’intrattenimento. “Maniera, misura et virtute” è il suo motto.
Intanto, accanto alle danze nobili, ormai prive della tradizionale improvvisazione a favore di codici e coreografie, il popolo ebraico e cristiano si riversa nelle piazze dei ghetti, soprattutto nel più antico e affascinante di questi, a Venezia: il “geto” (la parola ghetto deriva dal veneziano e indica uno spazio simile a una fonderia). Doveroso il ricordo dell’evangelista Marco: da Alessandria d’Egitto, trascinando con sé una comunità ebraica ancora libera da ogni tipo di apartheid sin dal primo secolo d.C. – edificò molte chiese lungo le coste adriatiche. Morì in circostanze misteriose, ma il suo corpo approdò nella Serenissima, ancora priva di un suo santo protettore. Vi siete mai domandati perché a Venezia vi sono tanti Marco: piazza, basilica, campanile e non solo? Prediletta, nelle piazze lagunari, era la festa di “Purim” (o festa delle sorti): si ballava per celebrare il coraggio di Estèr (dalla meghillà, il libro omonimo) che convinse Serse I, il re Assuero persiano, a non sterminare il popolo ebraico di cui lei era di nascosto, parte.
Nelle scuole non più clandestine, fondate a Venezia nel 1443 ma pure a Parma nel 1466, tutto sembrava procedere a gonfie vele, sino al fatidico 1492. Gli ebrei furono cacciati da tutti i territori degli imperi spagnolo e portoghese e ripudiati con l’aiuto di una letteratura, almeno in Europa, di sicuro “alta”, come quella di Christopher Marlowe o di Shakespeare che delinearono una figura di ebreo usuraio e falsario, creando un cliché difficile da estirpare. Marlowe scrisse nel 1589 “L’ebreo di Malta”. Protagonista è Barabba (nome non scelto a caso), un cattivaccio assetato di ricchezze, violento, traditore cui viene riservata, alla fine della tragedia in cinque atti, la morte che si merita. Più ambiguo e sfuggente è il ben noto e rappresentato “Mercante di Venezia” (1596-1598): difficile però tacciare il Bardo di Stradfort-on Avon di antisemitismo. E’ vero, l’ebreo Shylock coltiva la perversa idea di pretendere da un cristiano una libbra della sua carne in cambio del denaro prestato; ma il suo comportamento non viene letto da Shakespeare solo entro i consueti stereotipi: anche Skylock ha subìto i torti di una città di mercati dove il denaro equivaleva a potere, commercio, prestigio; a Shylock non restava che la sua puntigliosa richiesta, poi andata vana, e la “prigione” del suo ghetto.
In questo clima, il ritorno alla danza non poteva che essere duro, puro, rivolto alla tradizione e mistico. Nella prima metà del Settecento nasce in Podolia, una regione dell’Ucraina, e si diffonde rapidamente in Polonia, in Russia e in quasi tutte le comunità dell’Europa orientale il movimento, tuttora in auge in Israele e in diaspora, dei Chassidim, (letteralmente pii o devoti). Uomini vestiti di nero e con cappello dal quale calano riccioli più o meno lunghi: questi ebrei ortodossi danzano molto, sempre divisi per genere, e si rifanno all’esoterismo della kabbalah (Cabala). La circolarità delle loro danze non ha inizio né fine, in modo che possano entrarvi “le realtà divine”; le braccia sono appoggiate alla spalla di chi sta accanto per accentuare la forza della musica klezmer.
Come forma di preghiera il Chassidismo educa i giovani, fin dalla tenera età, ad utilizzare il corpo per ogni tappa della vita. Molto lontani dall’ortodossia chassidica, anche se per lo più della stessa origine askenazita, sono gli ebrei che tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo si insediarono in Palestina (lo Stato d’Israele sarebbe nato nel 1948) e fondarono i primi kibbutzim. Questi cosiddetti “pionieri” furono per lo più intellettuali laici o poco osservanti, tesi a contraddire l’immagine dell’ebreo ricurvo, fragile, dal naso adunco e bruttino. Con un esprit comunitario e un ideale socialista, dissodavano un terreno arido e non venivano ricambiati in moneta bensì con i frutti del loro lavoro. Portavano con sé il bagaglio culturale dei loro paesi d’origine e molte danze popolari come la Hora rumena: veicolo di sentimenti e del vissuto quotidiano dove, in cerchio, tenendosi per mano, uomini e donne esprimevano la rinuncia alla “vita cittadina” per un ritorno alla natura. Con la nascita dello Stato d’Israele, i kibbutzim sarebbero potuti scomparire, invece sono oggi circa 250 e non si occupano solo di prodotti agricoli, ma tecnologici e manifatturieri. Le danze sono ancora perno della vita comunitaria, ma dal 1940 sono state ricondotte ai temi biblici e trasfigurate nei passi da intraprendenti donne come Gurit Kadman, Leah Bergstain, Gertrude (Gert) Loewenstein, Jardena Cohen, o Margaret Schmidt, discepola di Rudolf von Laban, il maggior teorico della danza libera: fuggita dalla Germania, nel 1925 approdò nel kibbutz Bet Alfa, dove inizialmente lavorò in lavanderia.
Stupiti? Anche Amos Os, il grande scrittore scomparso nel 2018, a 15 anni andò a vivere nel kibbutz di Hulda, in seguito al suicidio della madre. Divenne la “barzelletta del kibbutz”, ma poco alla volta il ricavato dei suoi libri compensò la sua inesistente vocazione agricola. Riconosciuta artista, Margaret, con altre coreografe come Rivka Sturman, si ingegnò nel reintrodurre con grazia tutta femminile e poesia vaporosa, gli antichi temi biblici nei balli dei kibbutzim. Esperimenti di successo portarono alla fondazione di festival come quello di Dalijjah, che anno dopo anno crebbe a tal punto da esigere un enorme anfiteatro naturale per contenere “il popolo che danza” e continuò a danzare dopo lo choc del ritorno in Israele dei sopravvissuti della Shoah e durante tutte le guerre e i conflitti con i Palestinesi, dopo l’assassinio di Rabin e sotto il governo di Netanyahu il cui soprannome quasi infantile, Bibi, poco si confà alla sua statura (sic!) politica.
Oggi in Israele vive e prolifera, accanto al ballo sempre coltivato nelle piazze e all’aperto, una variegata e splendida danza contemporanea. Ha di certo ragione la Bartolini De Angeli quando asserisce che la seconda generazione danzante nel nuovo Stato fondato da Ben Gurion fu maschile. Ma questi coreografi non solo si divisero in fretta tra cultori folk e non, ma furono tutti allievi di coraggiose pioniere degli anni Quaranta, come Rami Be’er, prediletto dalla cecoslovacca Yehudit Arnon, fondatrice nel 1971 della Kibbutz Contemporary Dance Company che Rami ancora dirige. Invece, Moshe Efrati, scomparso l’anno scorso, ma fondatore della Kol Demama Dance Company, dovette tutto alla Bat-Dor Dance Company, co-fondata nel 1967 (ed esistita sino al 2006) dalla baronessa Bethsabée (Batsheva) de Rothschild e da Jeannette Ordman, una ballerina ebrea sudafricana. In una delle sue tournée, alla fine degli anni Ottanta, Moshe presentò una manciata di brevi danze dai temi biblici con un suo gruppo di danzatori udenti e non udenti. Chissà se riutilizzò la già citata “mano guidoniana” per far accalappiare ritmi e soprattutto note?
Campionessa di tournée, coproduzioni, premi, focus e convegni fu però, almeno dal 1990 in poi la Batsheva Dance Company, altro frutto della generosità della figlia dei ricchi banchieri americani De Rothschild stabilitasi nel 1961 in Israele. Tre anni prima dell’apertura della Bat-Dor, la baronessa convinse l’amica Martha Graham a fondare una sorta di dépendance della sua scuola a Tel Aviv. La madre della Modern Dance accettò e giunse in Israele con una schiera di insegnanti. Con Martha si formò Ohad Naharin, vera autorità della danza contemporanea mondiale, inventore di coreografie meravigliose, di un metodo – Gaga che fa danzare anche le pietre per come libera il corpo da ogni inibizione – dal quale nacque un film di Tomer Heymann (2015), “Mr. Gaga”, anima e corpo di un genio della danza, di portata internazionale. Storia lunga quella di Ohad, nato nel kibbutz Mizra (1952), e piena di svolte a gomito – ha lasciato la direzione della Batscheva per dedicarsi solo al suo estro artistico – e tuttavia emblematica. In alcuni suoi lavori dal titolo sempre uguale: “Minus” 1, 2, 3 e sino a 16, per ora – l’incipit è un semicerchio di danzatori vestiti in abiti neri, e cappelli vagamente Chassidim. Cantano in ebraico stando seduti, forse dal libro dei Salmi, e poi con foga si liberano delle giacche e iniziano a dar vita a progetti coreografici mai uguali ma che, senza varianti, terminano con una discesa, di nuovo di nero vestiti, tra il pubblico. In platea scelgono uomini e donne e con garbo li fanno ballare con loro sul palco. Inizio e fine vanificano la domanda di Elena Lea: danza israeliana o ebraica? Ma anche la distinzione tra ballo per tutti e per pochi. Ohad è l’uomo, ritroso e tormentato, che forse più di chiunque altro artista israeliano incarna la danza come identità ebraica della tradizione.