Teoria critica vs Bernard Stiegler
Sul linguaggio-feticcio dei decostruttivisti prevale il “Ritorno a Francoforte”
Quando l’imbarbarimento della cultura si sposa con la sofisticazione universitaria d’avanguardia, il gergo metodologico impedisce di riflettere e perfino di leggere
Notizie complementari e contrastanti dal mondo della filosofia vengono da due libri appena usciti da Castelvecchi. Il primo è Ritorno a Francoforte. Le avventure della nuova teoria critica di Giorgio Fazio (pp. 410, euro 34), il secondo è L’immunità della filosofia di Bernard Stiegler, il cui sottotitolo esuberante suona così: “Riflessioni sulla tecnica e decostruzione del moderno dopo Derrida” (pp. 58, euro 11,50), che riunisce due testi: Elementi per una organologia generale e Di una farmacologia positiva. Mi dichiaro subito a favore del primo libro e molto perplesso sul valore del secondo, anche se si tratta di due letture in nessun modo comparabili.
Nel primo caso il lettore si trova fra le mani l’esauriente e limpida ricostruzione di una delle vicende centrali della filosofia novecentesca, dai “francofortesi” di prima generazione, Horkheimer, Adorno, Marcuse, Fromm, alla seconda e terza generazione di Habermas e allievi, con lui e al di là di lui, Axel Honneth, Wolfgang Streeck, Rahel Jaeggi, Hartmut Rosa. Il fatto che una tale vicenda in Italia sia stata pressoché dimenticata per diversi decenni ha reso possibile il diffondersi di una neofilosofia ontologizzante e teologizzante, che è passata dall’iniziale culto di Benjamin, marxista non digiuno di mistica ebraica e francofortese periferico (cugino di Adorno), al culto di Heidegger e Carl Schmitt, che Benjamin detestava per buone ragioni sia filosofiche sia antinaziste. Singolare che stroncature molto efficaci di Heidegger come quelle di Karl Löwith, Gunther Anders e dello stesso Adorno, siano state volutamente ignorate dagli heideggeriani italiani e francesi.
Ho letto anni fa da qualche parte che Heidegger, riferendosi ad Adorno, lo chiamò con disprezzo “quel sociologo”, negandogli con questo la molto più nobile qualifica di filosofo. È un punto non trascurabile, che rivela due opposte idee di filosofia. Mentre per Heidegger è filosofia solo quella che si esaurisce nei termini dei Presocratici, della metafisica greca e della mistica medioevale (Heidegger saccheggia Meister Eckhart), la Teoria critica dei francofortesi prende invece forma, problemi e categorie da Hegel e Marx, Montaigne e Nietzsche, Freud e Weber, Kafka e Schönberg: è cioè un’antropologia della moderna società borghese e di massa, senza la quale il pensiero tradizionalmente filosofico diventa una replica formale di problematiche scolastiche e vuote di contenuti storici reali. Il linguaggio ontologico di Heidegger è illusionistico anzitutto per la ragione che è programmaticamente depurato di riferimenti empirici, psicologici, morali, sociali, politici, scientifici.
Dopo Habermas, come spiega Giorgio Fazio, i suoi più giovani allievi hanno sentito il bisogno di “riproporre e riformulare termini e categorie che impregnavano la diagnosi delle patologie delle forme di vita capitalistiche”, quali erano state analizzate da Benjamin, Horkheimer, Adorno, Marcuse. Come già in Marx, filosofo antifilosofico, nella Scuola di Francoforte la filosofia si presenta come critica della società e della cultura. Se è vero, come dice Fazio, che l’eredità dei francofortesi “è oggi al centro di una nuova attenzione” in Germania e negli Stati Uniti, questo accade perché si avverte che alcune delle loro tesi sono oggi ancora più vere di ieri. Il loro orizzonte era quello di un “materialismo interdisciplinare” in cui interagivano diversi livelli di indagine: le trasformazioni dell’economia capitalistica e dello stato, la produzione artistica e letteraria, l’industria culturale dell’intrattenimento e dell’informazione, le strutture famigliari e la genesi della personalità autoritaria in quanto base psicosociale dei fascismi e delle dittature populistiche.
Più povera e schematica, meno fondata su ricerche empiriche e con abbondanza di terminologie feticcio, è l’eredità della cosiddetta French Theory, i cui più frequentati autori di riferimento sono stati e sono Foucault e Derrida. A quest’ultimo si deve la ripresa enfatica e divulgativa di un’idea già presente in Heidegger, quella della Decostruzione: una metodologia critica applicabile a tutti i linguaggi culturali e campi del sapere. Lo stile dialettico di pensiero che si trova (per fare un solo esempio) nei Minima moralia di Adorno è aforistico e paradossale e combatte contro ogni tipo di astrazione generalizzante attenendosi all’osservazione ravvicinata di fenomeni quotidiani nei quali la totalità sociale agisce (e qui il maestro è Freud usato come moralista).
Il linguaggio dei decostruzionisti è invece scolasticamente oratorio: le escogitazioni terminologiche finiscono per occultare piuttosto che per rivelare verità di fatto. Per provocazione e per rendere l’idea accosto qualche riga di Adorno a qualcuna di Stiegler. Ecco Adorno: “La tecnicizzazione rende le mosse brutali e precise, e così anche gli uomini. Elimina dai gesti ogni esitazione, ogni prudenza, ogni garbo (…) Nei movimenti che le macchine esigono da coloro che le adoperano c’è già tutta la violenza, la brutalità, la continuità a scatti dei misfatti fascisti”. Ed ecco Stiegler: “L’organologia generale si concretizza per prima cosa nel contesto ipercritico provocato dalle tecnologie digitali e prima di tutto sotto forma di digital studies. Ciò significa che l’oggetto primordiale dell’organologia generale – la ritenzione terziaria e più precisamente la relazione terziaria ipomnesica, in quanto è irriducibilmente farmacologica – conferisce alla situazione esosomatica presente una portata costitutiva. Essa è dunque irriducibile alla località noetica presente…”.
Che dire? Cosa pensare? Si vede qualcosa? Quando l’imbarbarimento della cultura si sposa con la sofisticazione universitaria d’avanguardia, il gergo metodologico impedisce di riflettere e perfino di leggere.