ascoltare il sommo poeta
Rispettare Dante dovrebbe spingere a leggerlo, più che a scrivere libri su di lui
Dantisti ovunque. È la democrazia culturale interpretata male
Il sottinteso del libro L’Italia di Dante, che il mio amico e ex compagno di liceo Giulio Ferroni ha pubblicato l’anno scorso, un sottinteso ispiratore che diventa più che esplicito nel corso dell’intero volume, indica esattamente the heart of the matter, come direbbe il cattolico Graham Greene. Il nocciolo della questione è infatti che l’Italia di oggi ha più di un problema con il più grande e famoso dei suoi classici. Comunque non solo l’Italia, ma tutto l’occidente cristiano ha problemi, anche se non se ne accorge, con il più cristiano dei suoi giganti letterari: almeno se vuole chiamarsi cristiano facendo così poco per esserlo.
Come in certi funerali di personaggi pubblici, anche l’anniversario della morte di Dante rischia di diventare soprattutto un cerimoniale mondano nel quale i maniaci dell’esserci sentono un imperativo bisogno di non mancare. Si danno da fare per essere notati, per salutare e sorridere e chiacchierare con tutti coloro che sono lì per la stessa ragione. Si “danteggia” a tutto spiano quest’anno: dovunque e perfino improvvisandosi cultori della materia, lettori abituali, commentatori originali, esperti della Divina Commedia. Pubblicare un libro o un libretto su Dante e noi, è una cosa che ci si mette a fare senza pudori né senso dei propri limiti. No, leggere libri non basta mai, bisogna scriverli. Senza chiedersi perché, per esempio, non hanno scritto il loro libro su Dante autori che senza dubbio ne sapevano molto avendolo letto per una vita e cercato di imparare da lui tutto il possibile: poeti come Montale, Caproni, Luzi, Fortini, Pasolini e critici come Segre, Garboli, Citati, Sanguineti, Asor Rosa, Mengaldo. Il rispetto che si dichiara di avere per Dante dovrebbe spingere a leggerlo e rileggerlo, ma anche impedire di mettersi a pubblicare libri per informare il mondo di cosa se ne pensa. (segue a pagina due)
È la democrazia culturale interpretata male: tutti si sentono in diritto di allungare le mani su tutto senza preoccuparsi di valutare quale sia il merito necessario per rivendicare diritti culturali specifici. Nel suo saggio sulla stupidità, Robert Musil disse che nella cultura si apriva un’epoca nuova il giorno in cui qualcuno arrivò a definire “geniale” un cavallo da corsa.
Nella sua Lettera apostolica Candor lucis aeternae dedicata a Dante e comparsa su Agorà di Avvenire il 26 marzo, Papa Francesco ha detto, fra le altre, una cosa fondamentale: “Dante non ci chiede, oggi, di essere semplicemente letto, commentato, studiato, analizzato. Ci chiede piuttosto di essere ascoltato, di essere in un certo qual modo imitato, perché anche oggi egli vuole mostrarci quale sia l’itinerario verso la felicità, la retta via per vivere pienamente la nostra umanità, superando la selva oscura in cui perdiamo l’orientamento e la dignità”.
Dante ci esorta, ma ancora prima ci giudica, o meglio ci offre i criteri per giudicare noi stessi. Se lo ascoltiamo davvero, possiamo cominciare a giudicare il nostro modo di vivere, la nostra attuale civiltà e inciviltà. Ho sempre avuto l’impressione che i primi a non ascoltarlo siano proprio coloro che lo studiano in quanto studiosi, o si mettono a scrivere su di lui per prendere parte da persone di mondo al suo funerale.
Dante dovrebbe farci misurare per prima cosa la nostra capacità di lettura, il nostro modo di leggerlo e il perché lo leggiamo. Il fatto è che il nostro modo attuale di leggere, sia per studio che per svago, non comporta il vero ascolto se non in misura minima, superficiale, strumentale. Leggere Dante così non soltanto è sbagliato, è impossibile. Lo si falsifica riducendone la complessità a una sensazionale curiosità storica, che direttamente non ci riguarda.
È vero, come disse T. S. Eliot, il più dantesco fra i poeti del Novecento, che Dante “è il poeta più universale che abbia scritto in una lingua moderna (…) La cultura di Dante non era quella di un paese europeo, ma quella dell’Europa”. Alle sue spalle c’era una cultura cristiana unitaria espressa in un’unica lingua, il latino medievale, e attraverso un unico metodo rappresentativo, quello allegorico o “figurale”. Ogni nozione era, per la cultura a cui Dante apparteneva, un fatto visivo. Eminentemente visiva era la sua immaginazione, in un’epoca, dice Eliot, “in cui la gente aveva ancora delle visioni”, non equiparabili ai nostri sogni freudianamente intesi. Le visioni medievali avevano un ordine e un’obiettività biblicamente e teologicamente codificata che i nostri sogni e le nostre utopie non hanno. Anche per questo la lettura della sua Commedia impegna l’occidente cristiano di oggi a riflettere sulla realtà morale e sulla finzione ideologica di un cristianesimo dichiarato e non vissuto