Il foglio del weekend
Foto da toccare
Se tutti possono scattare con uno smartphone, è ora di creare un nuovo canone artistico. A colloquio con Michael Mack
La mostra di fotografia del momento (e il momento non è certamente banale), è “But Still, It Turns”, inaugurata lo scorso 4 febbraio a New York all’International Center of Photography, diretto dall’inglese David Campany. Inglese è anche il fotografo Paul Graham che cura l’esposizione dei lavori di otto artisti americani ed europei. Il galileiano “Eppur si muove” del titolo è già un giudizio di valore sulla fotografia documentaria, passata in secondo piano dopo i fasti vissuti negli ultimi venti-trent’anni eppure ancora vitale nell’opera di quelli che Graham definisce fotografi interessati alla vita “così com’è”. Certo, sono finiti i tempi della retorica sull’oggettività del mezzo fotografico. Sembra svanita l’illusione che sulla pellicola o sul sensore digitale si possa registrare “la” verità, senza filtri tecnici o culturali. Eppure, ancora c’è qualcuno che non si rassegna e non ha perso l’interesse per quella che Roland Barthes chiamava “intrattabile realtà”.
La scelta di Graham è caduta su Vanessa Winship, Curran Hatleberg, RaMell Ross, Gregory Halpern, Kristine Potter, Stanley Wolukau-Wanambwa e gli italiani Piergiorgio Casotti e Emanuele Brutti. L’ambizione è quella di scrivere un manifesto di un nuovo modo di fare fotografia e il New York Times ha paragonato l’operazione a quella che fece il MoMa nel 1967 con “New Documents”, lanciando nella storia tre autori allora pressoché sconosciuti: Diane Arbus, Lee Friedlander e Garry Winogrand. Gli osservatori più accorti hanno notato che i nomi coinvolti nella mostra, Campany, Graham e due artisti in mostra (Winship e Halpern) sono legati a un altro personaggio, anche questa volta inglese: Michael Mack, fondatore della casa editrice Mack, che pubblica il lavoro di tutti gli altri quattro. Se si trattasse di una campagna per scrivere una nuova pagina del canone della storia della fotografia, è indubbio che lui avrebbe il ruolo di un autentico pigmalione. Londinese, classe 1965, ha lavorato per 15 anni alla corte del tedesco Gerhard Steidl, re incontrastato degli editori di arte e fotografia.
Dopo una parentesi di qualche anno in cui ha pubblicato sotto il marchio Steidl/Mack, nel 2010 si mette in proprio con una casa editrice tutta sua. “L’unico rimpianto che ho – spiega – è di non aver avuto la pazienza o la fantasia di inventare un marchio diverso dal cognome”. Noto nell’ambiente per il suo charme, Mack è considerato un uomo d’affari che sa il fatto suo. Il gesto più coraggioso l’ha compiuto quando ha deciso di rompere con la Distributed Art Publisher, il colosso della distribuzione dell’editoria d’arte negli Stati Uniti. Il rapporto diretto con le librerie, oggi, gli consente margini di guadagno maggiori sul prezzo al dettaglio. A undici anni di distanza Mack è diventata forse la realtà più vitale nel mondo dell’editoria di fotografia. Nel suo catalogo, oltre ad alcuni grandi nomi, come Paul Graham, Stephen Shore, Michael Schmidt, presenta anche autori ormai consolidati come Taryn Simon, Alec Soth, e Alessandra Sanguinetti, Jason Fulford e artisti non esclusivamente legati alla fotografia, come Thomas Demand, Tacita Dean e Torbjørn Rødland. Una delle cose che maggiormente stupisce è che tra i bestseller pubblicati da Mack, troviamo due grandi italiani: Luigi Ghirri, di cui pubblica, unico al mondo, la raccolta completa dei saggi, e Guido Guidi, che con l’editore inglese ha realizzato otto titoli.
La storia d’amore con la fotografia di casa nostra inizia nei primi anni Novanta. “Mi trovavo in Germania e lì mi avvicinai alla tradizione tedesca e svedese. Mi sono reso conto che, oltre al canone della fotografia, che è tutto americano, le storie nazionali hanno una profondità e una ricchezza incredibili. Sono molto sofisticate”. La stessa cosa succede con la scoperta del lavoro di Ghirri: “Ho avuto l’impressione che desse un contributo alla definizione del medium fotografico in quanto tale”. E si ricorda ancora l’impressione avuta la prima volta a Ronta, alla periferia di Cesena, nello studio di Guido Guidi: “Ogni scatola di stampe che apriva era un libro fatto e finito. Incredibile. È un privilegio poter collaborare con un maestro come lui. Ha un archivio ancora inesplorato e le idee molto chiare su come vuole mostrare il suo lavoro”. Entrambi, Ghirri e Guidi, spiega, sono radicati nel loro mondo che è l’Italia. “Il grande nome di Magnum non è in grado di fare quello che hanno fatto loro arrivando dall’America e passando da voi qualche settimana”. Sono due autori che, per generazione e interessi, sono molto simili. Ma hanno anche approcci diversi. “Ghirri è molto influenzato da personalità come William Eggleston, che è un genio assoluto dell’immagine singola. Guidi, invece, ha un occhio capace di entrare nel tessuto del suo ambiente e lavora molto di più con scatti in sequenza”.
Mack è sempre a caccia di talenti e nuovi autori. E li sta cercando anche in Italia. Ma a casa nostra non viene a cercare solo fotografi. I suoi libri, infatti, sono quasi tutti stampati da aziende nel nostro paese. “I vostri stampatori e rilegatori hanno una sensibilità straordinaria e una capacità particolare di capire di che cosa abbiamo bisogno. E questo ci permettere di osare sempre di più”. E l’ultima notizia, decisa nelle scorse settimane, è che Mack aprirà una sede italiana per seguire meglio il lavoro ai nuovi progetti e il grande seguito, anche di vendite, che sta avendo nel nostro Paese. “Una delle due nostre grafiche, dopo i mesi di lockdown a Londra, ci ha chiesto di tornare nella sua Trieste. Questo ci ha dato l’occasione di aprire una nostra sede operativa”. Se gli si chiede se è davvero sua intenzione contribuire, con “But Still, It Turns”, alla scrittura di un nuovo canone di fotografia, risponde in modo indiretto, ma l’impressione è che “the short answer” sia: sì. “La proposta è di Paul Graham, è molto precisa e tocca due nodi di grande attualità. Il primo è che nel nostro tempo, dominato dal moralismo, le leggi sulla privacy rendono molto difficile creare opere d’arte basandosi su fotografie scattate alle persone senza il loro consenso, come avevano fatto grandi come Robert Frank, Gerry Winograd, Lisette Model e lo stesso Henri Cartier-Bresson”.
Il secondo punto, spiega Mack, è che negli ultimi anni, nel mondo dei musei e delle gallerie, è stata promossa la fotografia che predilige lo scatto in studio e la pesante manipolazione delle immagini. “Graham, invece, torna a proporre un tipo di lavoro che prende una parte della vita, qualcosa che è realmente accaduto, e lo trasforma in un’opera d’arte. Detto questo, devo ammettere che, se si vanno a guardare i libri che ho pubblicato finora, in effetti, è il tipo di fotografia che anche io prediligo. E’ il mio gusto personale che, necessariamente, influisce molto sul tipo di libri che pubblico. Io non mi occupo semplicemente di provvedere a packaging delle idee lasciando che sia il mercato a decidere che cosa funziona o no. Io parto dal pensiero degli artisti e scelgo basandomi sui miei gusti. Poi non sempre i miei gusti funzionano”. Il flop che gli brucia di più risale al 2005, quando ancora collaborava con Steidl. È stato “Jens F”, della fotografa newyorchese Collier Schorr. “È ancora il mio libro preferito. Non ebbe nessuna visibilità e non vendemmo. Poi puoi consolarti con quei quattro esperti che ti dicono che era un capolavoro… Però resta un fallimento commerciale”. Ma la vita dei libri di fotografia è molto strana e, col tempo, magari non migliorano come il vino, ma spesso aumentano di prezzo. Anche molto. E le copie rimaste di “Jens F” oggi si trovano sul sito dell’editore in vendita a mille sterline ciascuna. Ma la politica di Mack non è quella dei libri d’arte a tiratura limitata, anche se esistono le Special Edition firmate e con una stampa fotografica numerata.
L’ambizione è arrivare al grande pubblico: “In molti oggi, tra gli editori del nostro mondo, parlano a una piccola confraternita di addetti ai lavori. Noi invece facciamo sì libri d’artista, ma cerchiamo di fare delle grandi tirature, teniamo bassi i prezzi e ristampiamo i libri di successo, perché crediamo nella democrazia del processo editoriale”. Per Mack il lavoro dell’editore di fotografia è come quello di qualsiasi altro editore: offrire una piattaforma che faciliti la diffusione delle idee. “Noi selezioniamo, confezioniamo, produciamo, promuoviamo gli autori che ci piacciono e cerchiamo di farli conoscere il più possibile”. Il punto è che non è poi così complicato fare un libro che sia bello, spiega Mack, “la cosa difficile è trovare la forma che si adatti meglio al contenuto e riuscire a far girare l’opera in tutto il mondo”. Sarà forse il senso della sfida ma, nella selezione dei progetti da produrre, l’editore cerca sempre di partire dall’idea. “Non sono molto attratto dal nome famoso che si nasconde dietro la propria fama. Il lavoro che ti dà più stimoli è quello con i giovani che hanno un approccio più fresco, un coinvolgimento diretto con il mondo di oggi”.
Il riferimento, implicito, è anche al MACK First Award, che mette in palio la pubblicazione dell’opera prima. “Poi certo, ho fatto anche libri pescando negli archivi di grandi fotografi. Anche perché le leggi che cerco di impormi finisco per infrangerle tutte”. Un’altra regola è che il design non deve sovrastare il lavoro dell’artista. Il tipo di stampa, la carta, il tipo di rilegatura… Tutto per Mack deve essere al servizio delle idee. “Vedo ancora troppi libri di fotografia che sono esercizi di stile solipsistici. Un libro riuscito è un oggetto per cui il lettore ha la sensazione di avere in mano un qualcosa che sia stato fatto per lui. La sfida è stabilire un dialogo con il pubblico. Cerchiamo di offrire contenuti che anticipino le esigenze delle persone. Davanti a un grande libro la mia coscienza incontra l’esplosione dell’arte dell’autore. Nel mio corpo e nella mia mente si produce qualcosa di nuovo. Diventa un’esperienza”.
Il successo di questo tipo di libri, spiega, “è dovuto probabilmente al fatto che ti chiede di fare l’opposto di ciò che fai quando tieni in mano un cellulare”. Il tema del supporto cartaceo è importante per Mack. “Una delle caratteristiche del medium fotografico è la sua malleabilità. Si presta a innumerevoli utilizzi. Ma sono convinto che il libro permetta all’artista di raggiungere la presentazione ideale del proprio lavoro. Per me, ma sono in molti a pensarla così, soprattutto tra i fotografi, il libro coincide con l’opera d’arte, più di quanto non sia una mostra”. Alcuni libri riproducono semplicemente una serie di fotografie. E non ci sarebbe nulla di male. Ma l’opera d’arte è un’altra cosa. Lo si capisce bene quando chiediamo a Mack che cosa pensi dei testi che accompagnano i libri di questo genere. “C’è stato un periodo, tra gli anni Ottanta e Novanta, che io chiamo ‘era Sontag-Berger’, in cui ogni fotografo voleva a tutti i costi un testo scritto da Susan Sontag o da John Berger. Che sono due scrittori brillanti, ma quando hanno lavorato per libri di fotografia hanno scritto cose mediocri”.
A meno che non si tratti di un catalogo di una mostra, o in altri casi particolari, Mack dice di rifiutare categoricamente testi del genere. “È come dichiarare che il lavoro ha bisogno dell’autenticazione tramite il nome di un grande scrittore, critico o curatore che ti dice come vanno lette le immagini. Come se da sole non fossero già in grado di parlare”. Ogni tanto anche lui prova a commissionare dei testi, chiedendo di scrivere su temi tangenziali al contenuto del libro, nel tentativo di creare contaminazioni. “Mi imbarazza dirlo, ma quasi la metà dei testi che ho commissionato, anche a grandi scrittori, si sono rivelati una delusione. Forse sono io che non sono capace di spiegarmi, ma vedo che è troppo grande la tentazione di descrivere il contenuto delle fotografie”. E per il futuro? Che cosa ronza nella testa di Michael Mack? “Oltre ad aver iniziato a pubblicare brevi saggi, lo scorso anno ho cominciato a contattare molti scrittori, in particolare poeti, e musicisti. Vorrei ampliare il campo nel tentativo di creare connessioni tra i vari ambiti artistici. Il nostro rischia di essere un po’ un ghetto e vorrei che si aprisse e contaminasse di più. Questo significa anche allargare il nostro pubblico e poter far conoscere autori come Ghirri e Guidi a un pubblico più ampio. In fondo, io mi sono sempre concepito come un editore di libri d’arte, non necessariamente solo di fotografia”.