L'intervista della domenica
La cura del tempo
La ricerca della felicità, San Francesco, il buonismo, le molliche, gli stadi, la pace, gli occhi consumati dai fumetti. Conversazione con Simone Cristicchi
Chiamo Simone Cristicchi mentre sta traslocando. Mi risponde con la calma e la gentilezza di chi sta a bordo piscina. Imperturbabile. O recita (molto bene) o è un mistico. Su Twitter, in bio, ha scritto: “Sono nato così. Sono fatto così. Non posso guarire. Posso solo migliorare”.
Rispetto alla prima volta che lo ascoltammo cantare, sedici anni fa, “Vorrei cantare come Biagio Antonacci”, il suo “tormentone involontario”, e pensammo che fosse il nuovo Caparezza, e non soltanto per i capelli, ha acquisito stoicismo. Da allora, ha cantato di preti (e lo hanno censurato), di pazzi, di minatori, di carcerati (lo ha fatto insieme a Franco Califano), ha diretto il Teatro Stabile d’Abruzzo, ha scritto libri, spettacoli, documentari e non una canzonetta. È apparso sempre con grande parsimonia.
In “Abbi cura di me”, l’ultima canzone che ha portato a Sanremo, due anni fa, Simone Cristicchi dice: “Non cercare la felicità, se mai proteggila”. Non avevo amato la canzone, ma quel verso sì.
Il suo ultimo libro, “HappyNext, alla ricerca della felicità” (La Nave di Teseo) parte da lì, dalle cose che si possono fare per custodire la felicità, che per lui è qualcosa che arriva e non un risultato che s’ottiene. Scrive: “Mi sono chiesto cosa sarebbe successo se quel senso di beatitudine durato tre giorni si fosse prolungato per sempre, e come sarebbe l’umanità intera, se potesse vivere costantemente con quella finestra spalancata”. Sta raccontando di quella volta che, in vacanza, s’è svegliato presto, è andato a camminare, e le cose solite gli sono parse sbalorditive ed esaltanti: da quell’istante e per alcuni altri giorni, ha vissuto in uno stato di grazia del tutto inatteso. Il suo libro racconta tutte le domande che s’è fatto per capire cosa fosse successo, i tentativi di riavere quella grazia o, almeno, di tenerne vivo il lascito. È un’indagine, una ricerca su quei giorni felici e quindi anche sulla felicità universale. Mi dice che, soprattutto, il suo libro è una testimonianza.
Ha scelto sette parole per parlare della felicità. Mi stupisce che non ci sia libertà.
Ne manca anche un’altra, altrettanto importante: coraggio. Ma queste prime sette sono quelle che per me costruiscono la felicità e mi che mi sono sembrate prioritarie, essenziali. La libertà non è un mattoncino, è un altro palazzo. Se riuscirò a proseguire questo progetto, sarà il centro di un’indagine come questa, un nuovo vocabolario da costruire insieme ad altri, come ho fatto con questo. Mi piacerebbe esplorare anche l’amore, la bellezza e la fede.
Lei si sente libero?
Come artista senz’altro. Mi sono sbarazzato di molti meccanismi di cui sono stato schiavo a lungo e che erano legati alle mie aspettative, al desiderio di affermarmi, alle unità di misura che usavo per stabilire il valore e il senso del mio lavoro. La dipendenza dagli applausi e dal posizionamento in classifica per anni mi hanno creato ansia, hanno voluto dire quasi tutto, non tanto o almeno non solo per protagonismo, quanto perché ero convinto che provare a piacere al più vasto numero di persone possibile fosse un dovere. Poi ho capito che quella è una fame è inesauribile, impossibile da soddisfare, e che quindi è una specie di nevrosi, e allora ho lavorato per superarla. Da quel momento in poi, sono arrivate le soddisfazioni migliori. Non è stato facile, naturalmente. Quando capisci di non voler piacere a tutti, cambia il modo in cui lavori, acquisisci una indipendenza e una libertà che, naturalmente, ti vengono fatte pagare. Quando decisi di fare teatro, nel 2010, il mio disco era andato piuttosto male rispetto alle aspettative e i primi spettacoli furono un flop: vennero a vedermi non più di quaranta persone. La vissi come una tragedia. Poi capii che per conquistare la fiducia del pubblico ci sarebbe voluto solo tempo e mi impegnai per offrire spettacoli di qualità, ragionati e ben costruiti.
Risultato?
Credo di aver conquistato la fiducia del pubblico, di aver manifestato chiaramente chi sono e come lavoro. Ora posso pubblicare un disco con i miei tempi e fare teatro nel modo che preferisco, perché sono forte di quella fiducia. Il marketing ne risente ma nulla vale il poter ascoltare il mio istinto.
Diciamo anche che si può permettere dei tempi rilassati perché ha una buona disponibilità economica.
Certo. Però prima della pandemia arrivavo a fare 150 spettacoli all’anno, vivevo tra alberghi e palcoscenici, non stavo mai a casa, era massacrante. Poi, quando sono stato obbligato a fermarmi, come tutti, ho capito che sto bene anche se lavoro meno. E non ho alcuna intenzione di tornare a quei ritmi forsennati. Aumenterò il cachet e farò meno date: in questo, sì, approfitto di una condizione di privilegio.
Quando ha capito che avrebbe fatto il cantante?
Nel 1998, d’estate, mi iscrissi a un concorso per cantautori, a Lanciano: si chiamava Cantautori 98, non avevo un gran repertorio, quattro o cinque canzoni al massimo, e ne portai una che raccontava di un senza tetto che incontravo sempre in metropolitana. Mi piaceva la cura con cui disponeva i bottoni, per venderli: li guardava come fossero il tesoro più prezioso del mondo. Il pezzo fu molto applaudito. Vinsi. Usai l’assegno per iscrivermi alla SIAE come autore e compositore. Capii che con le canzoni che scrivevo potevo realizzare qualcosa.
E come mai si è sempre dedicato anche al teatro, ai documentari e a molte altre forme espressive?
Ho affinato le arti che mi sembra si compensino tra loro. Rimango dell’idea che la canzone, quando è particolarmente riuscita, riesce a essere il veicolo più potente: in tre minuti dice tutto. Lavorarci comporta un enorme sforzo di sintesi, ma riuscire in quella sintesi significa riuscirsi a connettersi con le frequenze del pubblico e offrire un dono e uno strumento. Un libro, forse perché è più faticoso, è meno immediato in questo senso. Quando esordii, nel 2005, un editor della Mondadori mi propose di scrivere, io gli dissi che la sola cosa che mi sentivo capace di fare era una specie di diario di bordo del documentario sui manicomi che stavo girando. Ci provai e andò benissimo: vendetti più di centomila copie. Da allora, tutti i miei libri sono legati ai miei spettacoli teatrali, questo è legato a un documentario. Quello che faccio è sinergico, plurale, mi piace persino che sia corale.
Come ha conosciuto la suora di clausura con cui dialoga nel libro?
Sono stato nel suo convento, ricordo di essere entrato in una stanza dove c’era lei e molte sue sorelle e di aver sentito un’energia incredibile. Mi era cambiata l’aria. Era come se mi trovassi tra centinaia di pile. Non conobbi nessuna di loro personalmente, né le vidi in viso, naturalmente. Fu lei, dopo qualche giorno, a contattarmi per email. Da allora, ci scriviamo sempre.
Ha scritto un manuale (mi scusi la parola)?
Non ho alcun interesse a fornire vademecum. La mia è la testimonianza di un cammino. Mi piacerebbe, per questo, che fosse considerato un libro di viaggi, che le librerie lo tenessero negli scaffali delle guide alle città. Non che il viaggio sia finito: sono ancora in cammino, ma ho voluto fermare quello che ho vissuto e offrirlo. Ho 44 anni e credo di dovermi assumere la responsabilità di raccontare quello che credo possa essere utile agli altri. Ma le assicuro che sono stato molto combattuto, stavolta, prima di pubblicare. È la prima volta che mi espongo e racconto come alcune strane coincidenze delle mia vita abbiano illuminato alcuni passaggi, rendendo possibile un cambiamento che neppure immaginavo. È un fatto molto intimo, forse anche facile da fraintendere, o sottostimare o ridicolizzare.
Ha paura di essere frainteso?
Quando andrai a Sanremo con “Abbi cura di me”, una giornalista dell’Avvenire scrisse che era la canzone era un Cantico delle Creature 2.0, intendendo che era una preghiera. Io, certamente lusingato, commentai così: “Ah sì? Grazie”. Questa frase venne ripresa e ridicolizzata. Il Rolling Stone scrisse che mi sentivo San Francesco. Mi infuriai, ma mi consigliarono di non fare niente e non feci niente. Di certo, capii che il fraintendimento nasce sempre quando tra due interlocutori ce n’è uno in malafede.
Allora badare al linguaggio e scegliere le parole migliori non ha senso: i malfidati sono inestirpabili.
Lo ha eccome. Lo avrà sempre. La responsabilità me l’assumo comunque: gliel’ho detto che ho 44 anni. Sull' inestirpabile non concordo: io sono un ottimista.
Il successo le interessa o no?
A me interessa smuovere le persone. Se ci riesco anche solo con una, sono a posto. Una volta Franco Battiato mi chiese quale fosse il mio pubblico e non fui capace di rispondergli. Me lo disse lui: il pubblico è composto da persone che sono simili a te, sono sulla tua stessa frequenza. Ecco perché per me non contano più i grandi numeri, ma le persone che riesco a coinvolgere nel mio mondo e che si ritrovano nel tuo viaggio. Se riempissi gli stadi, sarebbe un problema per me: non riuscirei a comunicare con un numero tanto vasto di persone. Ad altri riesce, non ne dubito, ma a me no. Non credo nemmeno che sia una questione di capacità: è un modo diverso di comunicare e porsi obiettivi. Tutte le volte che vedo uno stadio dall’alto, da un aereo, penso che è una mollica, uno spazio minuscolo come tanti altri.
Lo ha un lato oscuro?
Mi ci fa pensare? La richiamo.
Fa sul serio?
Sto anche finendo il trasloco, mi dia un paio d’ore.
[Il paio d’ore passa davvero]
Dicevamo, il lato oscuro.
Non lo ho, però ho molti difetti.
Vede che fanno bene ad accusarla di buonismo?
Ah sì? Non lo sapevo. Non mi dica altro, per piacere, vivo meglio senza sapere.
Il peggiore dei suoi difetti si può sapere?
Sono indisciplinato, ma lo sono soltanto nel lavoro, non nei rapporti personali. Avrei potuto fare tante altre cose e invece mi sono perso. Questa indisciplina, però, è anche una grande dichiarazione d’amore per la vita. A lungo ho pensato che me la stessi raccontando così e invece poi ho capito che è proprio vero. Ed è per questo che sono molto convinto e sereno quando le dico che alla vita di prima non ho alcuna intenzione di tornare. Il lavoro, anche quando è stupendo come il mio, non è tutto o, se anche è tutto, deve migliorarci, non divorarci.
Ha scritto nel suo libro che nessuno dovrebbe smettere di andare a scuola finché non scopre quale sia il suo talento. Mi sembra un incubo. Non crede che si possa nascere senza talento?
No. Guardi che avere talento non significa avere un’abilità da sfruttare. È semplicemente la forza che aiuta le persone a realizzarsi, a scoprire chi sono e diventarlo.
Però c’è chi s’ammala per seguire il proprio talento. Lasciarlo andare non è una delle libertà possibili?
No, è uno spreco e basta. Un gran peccato.
Leggo nella sua biografia che, quando aveva sedici anni, le offrirono di lavorare come fumettista.
Avevo una grande passione per il fumetto. Rifiutai il contratto della Comic Art a 16 anni perché mi proposero di fare il disegnatore di Tira e Molla e invece io volevo fare i miei fumetti, usare il mio stile, la mia fantasia. Continuai comunque a disegnare così tanto che mi calò la vista e smisi: porto gli occhiali per questo. La mia ultima opera, ovviamente incompiuta, fu una graphic novel ispirata a “Il Bar sotto il mare” di Stefano Benni. Feci cinque tavole a china, con un pennino 0.1 e mi rovinai gli occhi.
Mi dice la ragione profonda di questo libro? Ripensandoci, la cosa del viaggio non mi convince del tutto, mi dica di più.
Fino a un certo punto ho creduto che la felicità potesse risiedere in cose esterne da me, come la soddisfazione professionale. Quando ho sperimentato quello stato di grazia, non saprei come altro definirlo, ho capito che quello stato era la mia meta, la vera felicità: una condizione e uno stato dell’essere che poi sarebbe bello prolungare e possedere costantemente, visto che nella vita abbiamo di pochi istanti, momenti, picchi di felicità, ma che forse dovrò accontentarmi semplicemente di capire, ricordare e spiegare altri altri. Non so se tutti abbiamo la fortuna di ricevere quel dono, quella specie di illuminazione ed è per questo che chi la ha, come io l'ho avuta, deve cercare la maniera migliore di condividerla con gli altri. Così come il documentario sui manicomi era un lavoro collettivo, anche stavolta mi sembra di aver costruito intorno alla parola felicità una comunità. Io lavoro per fare opere condivise.
C’è qualcosa che la turba?
Mi dispiace che così tante persone si accontentino del benessere, che è una felicità finta, e che siano poco curiose, accese, e non si fermino mai a pensare che vivono un profondo scollamento tra la realtà e ciò che li condiziona. Se i sentimenti sono storici, significa che possiamo lavorarci sopra.
Cosa non le piace dell’Italia?
In questo momento, la dad. Mi sono sempre chiesto se un creativo al potere non sarebbe riuscito a trovare una soluzione alternativa a questa violenza incredibile.
Lei cosa farebbe per la scuola italiana in questo momento?
Introdurrei corsi di teatro per gli insegnanti. Il calo dell’attenzione è un fatto grave, i professori devono essere capaci di affrontarlo e credo che se imparassero i trucchetti dell’affabulazione attoriale, riuscirebbero a incantare gli studenti. Esistono preti che cantano Fossati o De Andrè a messa, cambiano la liturgia per rendere l'incontro con i fedeli più fruttuoso, per avvicinarsi loro: i professori dovrebbero fare altrettanto.
Parla spesso, nel suo libro, di fortuna. A chi è più riconoscente?
A mio padre. È morto quando avevo 10 anni. Lui ne aveva quaranta. Fu un dolore enorme, terribile. Credo sia stata la sua morte e far nascere, in me, l'artista.
È senso del dovere?
No, è amore.