Tra violenza e stasi
L'abusivo della Napoli nera
Il caso Siani, il dramma di una città e di una generazione. Vent’anni fa usciva il più bel libro di Antonio Franchini
Esattamente vent’anni fa, maggio 2001, usciva da Marsilio L’abusivo di Antonio Franchini, che per me è uno dei più bei libri italiani del ventennio, forse il più bello, e vorrei spiegare perché mi piace tanto e guadagnargli qualche lettore, dato anche che l’anno scorso è stato ristampato da Feltrinelli e lo si può trovare in libreria. L’abusivo è una storia vera nella quale si intrecciano tre fili narrativi. Il primo, e principale, appartiene alla storia pubblica: l’omicidio del giornalista Giancarlo Siani nel settembre del 1985. È lui l’abusivo del titolo: abusivo, spiega Franchini all’inizio del libro, è il nome che a Napoli si dà a chi svolge un’attività senza licenza, di solito nell’ambito dei trasporti; e Siani, che quando morì aveva compiuto 26 anni da pochi giorni, non aveva ancora la licenza, la tessera da giornalista, era quello che oggi si chiama un freelance, in lista d’attesa per l’assunzione al Mattino. Gli altri due sono invece fili privati: Franchini parla della sua famiglia napoletana; e – un po’ di sbieco, poco dicendo e molto lasciando dedurre dal racconto, dal suo tono – parla di sé.
Il narratore non era stato veramente amico di Siani, ma l’aveva incrociato spesso nei suoi anni di giornalista pagato a pezzo, avevano collaborato: anche se lui, il coetaneo Siani, sembrava fosse già allora più bravo, più maturo sia nel mestiere sia nella coscienza politica (il narratore lo incontra per la prima volta durante un’assemblea studentesca, lo sente parlare e commenta: “Questo non ha ancora incominciato e già è meglio di me, e lo pensai più con scontentezza verso di me che con invidia per lui” – ecco anche un esempio di quelle incidentali riflessioni su di sé, quasi sempre amare ma non querule, di cui ho appena detto). Poi il narratore si trasferisce a Milano, e a Milano apprende la notizia della morte di Siani, dopodiché per anni, a ogni rientro a Napoli, raccoglie testimonianze su quella vita e quella morte. È stato – sono tutti d’accordo – un omicidio di camorra; ma quale camorra? Nella Campania degli anni Ottanta le famiglie criminali avevano ciascuna il loro feudo, i loro interessi e il loro onore da difendere, le indagini all’inizio seguono strade che non portano a niente, si perdono in un labirinto di potenziali mandanti: Nuvoletta, Bardellino, Gionta… Poi succede qualcosa, qualcuno parla, qualcuno viene arrestato, processato, condannato. L’indagine si chiude, sul caso Siani la giustizia fa, una volta tanto, piena luce. Ma nella trama del libro la scoperta dei colpevoli finisce per essere quasi irrilevante.
Nell’intrecciarsi delle piste che portano a questo o quel camorrista, e che alludono a questo o quel movente, il lettore perde presto l’orientamento. Come nella tragedia greca ad amministrare la morte sono quelle divinità minori che si chiamano Erinni, così qui la responsabilità dell’omicidio sembra rimontare a un potere anonimo, oscuro, e così certo della propria impunità da non avere neppure lo scrupolo di nascondersi, di confondere le tracce. Di fatto, uno dei dettagli più inquietanti dell’esecuzione è il lungo indugio degli assassini fuori della casa di Siani, a viso scoperto, un tappeto di mozziconi lasciati spavaldamente per terra: come negli anni della scuola, lo hanno”‘aspettato fuori”, non per picchiarlo ma per sparargli. Tra la storia di Siani e la descrizione della famiglia del narratore – secondo filo dell’intreccio – non c’è alcuna relazione diretta. Il padre è morto diversi anni prima, le sorelle del narratore sono lontane. Nella grande casa medio-borghese a Capodimonte restano la madre, uno zio, la nonna materna. Lo zio ottantenne ha lavorato tutta la vita e “continuava a farlo e non faceva altro, perché altro non gli piaceva né immaginava che altro esistesse”.
È un uomo silenzioso, riflessivo, gentile, retto, il tipo del napoletano civilissimo che sembra patire più degli altri, più degli altri italiani, le cattive maniere della sua città, e che chissà perché ha deciso di passare gli ultimi anni della sua vita in compagnia di due esagitate le quali “vivono assieme da sessantacinque anni, e per questo si odiano”. La madre è una donna energica, dispotica, specialista in piazzate. La nonna, anche lei virtuosa delle piazzate, è il personaggio più riuscito del libro, e uno dei più memorabili della letteratura italiana di questi decenni. Capricciosa, vanesia, falsa, infantile, sboccata, è stata soprannominata “Locusto” dai nipoti perché è implacabile e ciecamente malvagia come una delle piaghe bibliche. Ma un po’ come quei super-villain che s’incontrano nei fumetti o nei film di 007, e che a causa di qualche bizzarra caratteristica fisica o morale risultano più grotteschi che temibili, il Locusto prende sin dall’inizio i tratti del personaggio comico, insieme zimbello dei familiari (“Ched’è stu Locusto?” domanda. “Un animale”. “E che animale è? Un animale bello?”) e, con la sublime crudeltà dei vecchi, beffatrice dei più sfortunati di lei. Scendendo le scale del palazzo incrocia due donne, madre e figlia, la prima procede lentamente, la seconda si scusa: “Eh, signora, ma mamma non sta bene. Mamma è assai anziana, non è come voi!”. Lei, il Locusto, fa una carezza alla vecchina, s’informa della sua età: “Settantacinque”, e conclude trionfante: “Signo’, io ci ho novanta-tré anni!”.
Dicevo che non c’è relazione tra la vicenda di Siani e il racconto familiare. C’è però un’atmosfera comune, perché tanto sull’una quanto sull’altro grava un’aria di inconcludenza, di inerzia, quella che si respira in certi afosi pomeriggi estivi, come quello su cui splendidamente si conclude il libro (uno dei Leitmotiv dei libri di Franchini è l’ora vuota dei dopopranzi, quando chi lavora è rientrato al lavoro e chi non lavora perde tempo, si trascina, oppure va a chiudersi in certe palestre torride e deserte). È come se nell’ambiente in cui vivono Siani, il Locusto e il narratore il pendolo oscillasse tra la violenza e la stasi, senza fermarsi mai a quello stadio intermedio che è la normalità della vita. L’immagine di Napoli e della Campania che viene fuori dal libro è nera, disperata. Sono posti dai quali bisogna scappare. Come altri libri di Franchini, anche L’abusivo è occupato per un buon terzo dai monologhi di persone che il narratore ha intervistato perché conoscevano Siani. Alla fine di una di queste interviste-monologo il racconto stacca sul luogo in cui si è svolto il colloquio. Il narratore è a Roma, sta facendo la fila per il taxi, anche qui si respira un’aria di compressa violenza (“È una di quelle situazioni che possono creare irritazione perché non sai dov’è la fila e qual è il tuo turno, non ti puoi aggregare a una pacifica coda; senti l’accumularsi di un’inutile tensione”); il suo interlocutore gli sconsiglia di tornare a Napoli: “Devi andare a Napoli? Che ci vai a fare, che ci torni a fare […]? A Napoli è inutile tornare, stai attento che quelli passano avanti... no, tre milioni è un po’ poco, meglio quattro o cinque, quattro o cinque milioni di rendita al mese, senza fare niente, allora stai bene, guarda che sono passati avanti. Non ti fare fregare il prossimo, il prossimo è tuo. Allora sì, vai al mare, ti fai la passeggiata, ti mangi la sfogliatella… Attento a questo, fatti avanti, attento a questo…”.
Ma all’aria viziata, corrotta di Napoli non tutti reagiscono lasciandosi corrompere. Molti simulano per restare a galla (il libro si apre sul ritratto memorabile di un professionista della simulazione, Walter Chiari); in molti c’è un lato meschino o ridicolo: del resto anche il narratore, con le sue velleità di giornalista d’assalto, sarebbe prontissimo a farsi raccomandare da uno di questi assurdi faccendieri in rapporti con i potenti (“Signo’, che vo’ ‘fa o’ figlio vuost’? ‘O giurnalista? Nun ce sta problema, s’apprisentasse…”). Ma Siani no. Coi suoi venticinque anni, Siani è un’isola di serietà, di renitenza ai compromessi. Franchini non ne fa un eroe, perché non si può dire che abbia affrontato consapevolmente la morte, ci è caduto dentro senza volerlo scrivendo la cosa sbagliata più per distrazione che per un vero disegno di denuncia. Ma per tutto il libro il narratore sembra camminare, sembra vivere portando su di sé il peso di una colpa, la colpa di essere sopravvissuto a qualcuno che a differenza di lui non è scappato, che è rimasto fedele al dovere che si era scelto: “Così per ogni morto c’è un coetaneo che vive e passa la giornata su una spiaggia inaccessibile e pulita, una di quelle su cui un battello a una certa ora del mattino ti scarica e verso il tramonto ti ritorna a prendere […]. Colui che vive vede i bagnanti che smontano l’ombrellone perché sta arrivando il battello, li vede raccogliere le loro cose con metodo, riporle nello zaino, piegare asciugamani e magliette, scuotere la sabbia dagli zoccoli…”.
Con ciò veniamo al terzo filo narrativo, al racconto di sé che corre sotto la superficie dell’Abusivo. Qui le cose si complicano, perché non è possibile parlare del Franchini-personaggio dell’Abusivo senza chiamare in causa gli altri suoi libri nei quali l’io narrante ha una funzione analoga di testimone e comprimario. Basti dire che sin da ragazzo Franchini ha avuto due interessi principali, la letteratura e gli sport di combattimento. A quanto ne so, sono interessi ancora vivi in lui: per anni, Franchini ha lavorato nell’editoria, prima a lungo in Mondadori, ora in Bompiani; e per anni ha praticato la lotta (potrebbe aver smesso adesso, ultrasessantenne: nel suo ultimo libro, Il vecchio lottatore, c’è un racconto che lascia forse intravedere un ritiro). Nell’Abusivo non si parla di lotta, e di letteratura si parla soltanto per rinnegarla, per dichiararla futile: di fronte alle parole pronunciate dal camorrista che ucciderà Siani, “non può continuare a vivere”, appare priva di senso – commenta Franchini – “la sensibilità alle parole, la fatua ermeneutica alla quale fin da ragazzo mi volevo dedicare e che vivendo ho in qualche modo patito, appreso, desiderato espiare”.
La continuità tra l’io narrante dell’Abusivo e quello che governa il racconto in altri suoi libri come Quando vi ucciderete, maestro? o Gladiatori o Cronaca della fine si gioca su altri piani, e in particolare sul tipo di relazione che sussiste tra l’io narrante e gli esseri umani che costituiscono il soggetto dei suoi racconti. ‘Invidia’, per definire questa relazione, sarebbe troppo: non c’è niente da invidiare nel destino di un morto ammazzato, o di un pugile suonato, o di un anziano scrittore filo-nazista; ma, se non davvero invidia, ammirazione, stupore per una partecipazione alla vita più piena di quella che l’io narrante riesce ad esperire: lui giornalista mancato, lottatore amatoriale, ma più di tutto letterato che “rispetto alla scena del mondo, sta meglio dietro che davanti”. Non è una postura originale, naturalmente: non c’è niente di più ovvio dell’intellettuale che contempla amaro la vita, la vitalità degli altri, cercando magari di imitarla senza smettere di contemplarsi, di – pirandellianamente – sentirsi vivere.
Tuttavia, in Franchini questa seduzione sembra associarsi a un’analoga, simmetrica attrazione per la morte, per il modo in cui si patisce o si affronta il morire. Molte pagine si potrebbero citare, anche prese dall’ultimo libro o dal penultimo, il reportage dall’India Signore delle lacrime, che brulica di morti. Ma in Quando vi ucciderete, maestro?, uscito cinque anni prima dell’Abusivo, c’è una pagina che è come la sinopia di quella che ho citato sopra, sul senso di colpa del sopravvissuto. Stavolta questo senso di colpa l’io narrante non lo prova nei confronti di un coetaneo morto bensì nei confronti di uno zio dal quale ha ereditato il nome di battesimo, che è partito volontario per la Seconda guerra mondiale ed è morto al fronte; ma la divinità capricciosa e inesorabile che governa i destini, uccidendo alcuni, altri salvandoli, senza ragione, è sempre la Moira ovvero, modernamente, il Caso: “… un Antonio Franchini esce dal salotto in penombra e viene squarciato da una granata, l’altro ormai ha passato da molti anni l’età in cui il predecessore morì, ha il tempo di confrontare la sua faccia che si sta segnando con l’autoritratto in cui l’avo consegnò alla più lunga vita delle tele l’immagine della sua triste gioventù, e a me è rimasto tutto il tempo di chiedermi dov’è la differenza se non nel caso. Siamo uomini così simili, è mai possibile che i tempi siano stati poi tanto diversi e che i nomi ‘guerra’ e ‘pace’ designino solo i fortuiti travestimenti della stessa illusoria vicenda?”.