Il ritorno dell'oralità perduta
La voce seduce
Nuovi podcast e social network vocali. L’incanto che c’è dentro l’ascolto e l’atavico legame tra il narratore orale e il suo pubblico
Jim e Irene sono sposati, hanno due bambini piccoli e sono appassionati di musica classica. Vanno ai concerti e a casa ascoltano la radio. Sono gli anni Cinquanta e John Cheever sta preparando per i due personaggi del suo racconto (Una radio straordinaria) una sorpresa di quelle di cui solo lui è capace. Un giorno mentre Irene sta ascoltando un quintetto di Mozart, la radio inizia a trasmettere delle interferenze: il rumore dell’ascensore, poi di un’aspirapolvere, e ancora di un telefono che prende la linea. Infine le voci dei vicini, i loro litigi, i loro discorsi intimi, la loro vita, i precipizi delle piccole infelicità quotidiane: tutto quello che si nasconde dietro la facciata. È impossibile resistere alla tentazione di ascoltare quelle voci, Irene non farebbe altro. E la sua vita cambierà per sempre. La voce e la sua seduzione; l’incanto che c’è dentro l’ascolto, quell’atavico legame che c’è tra il narratore orale e il suo pubblico. È qualcosa che stiamo riscoprendo sempre più. 1619, il podcast prodotto dal New York Times per i quattrocento anni dall’inizio della schiavitù in America, comincia con i versi dei gabbiani e lo sciabordio delle onde; la voce narrante che descrive le sensazioni di quegli uomini e quelle donne che avevano perso il conto dei giorni nella stiva della nave che li trasportava attraverso l’Atlantico ed erano terrorizzati prima di tutto dall’incertezza.
In quel luogo buio qualcuno aveva fatto di loro degli “uomini neri”. Essere “uomini neri” voleva dire essere schiavi. Questo podcast è stato in assoluto tra i più ascoltati fra quelli prodotti dal New York Times. La produzione di podcast e il loro straordinario successo rappresenta il ritorno tutto contemporaneo di un’oralità che negli anni avevamo perduto, affascinati dalle immagini della televisione o – sul versante opposto – dalla pura lettura mentale. Con i nostri device accediamo ora a un mondo di racconti e replichiamo quello che ci hanno insegnato i grandi interpreti del teatro di narrazione. Marco Baliani, ad esempio, nel 1990 ha preso un fatto di cronaca realmente accaduto e raccontato da Heinrich von Kleist in pagine memorabili e lo ha trasformato in un racconto orale. La storia di Kohlhaas è la storia di un sopruso che, non risolto attraverso le vie del diritto, genera una spirale di violenza incontrollabile. L’episodio si svolge nel Cinquecento, ma allude agli anni Settanta del Novecento: la perdita del controllo sulla protesta, sull’uso della forza, i principi ideali che svaniscono se si soppesano le conseguenze. Per trasformare un testo letterario in racconto orale bisogna affidarsi alla forza della voce, alla sua capacità di trasformare il racconto in muscoli e vene, di tradurlo in immagini memorabili, in suoni ripetuti che vanno e vengono come ritornelli. E il narratore è lì, semplicemente seduto su una sedia. Non ci sono scenografie, costumi di scena, comparse. C’è solo il suono della sua voce che dipinge un mondo. Succede così anche con Ascanio Celestini, anche con Marco Paolini.
Il racconto orale è qualcosa che esiste da sempre ma ora trova – grazie alle nuove tecnologie – una nuova diffusione, nuove forme d’espressione. Il significato viene prima della grammatica, la voce è una forza archetipica. Dario Fo nel suo Mistero buffo usava il grammelot che lo aveva reso famoso non solo in Italia e gli sarebbe valso il premio Nobel per la letteratura. Talvolta era un pastiche di dialetti settentrionali, altre un’imitazione fonetica della parlata francese o inglese. Le persone nel mondo lo comprendevano perché il significato stava tutto dentro alle inclinazioni della sua tonalità vocale e ai gesti che riempivano la scena. Lo stesso vale per l’accesso che la nostra stessa voce ci dà alle emozioni più profonde. In un laboratorio teatrale degli anni Settanta, Dario Fo invitava i ragazzi presenti a salire sul palco e a improvvisare. Ogni qualvolta l’allievo si sforzava di trovare battute che avessero un senso, l’effetto risultava artificioso: l’elaborazione linguistica diventava un filtro che indeboliva la spontaneità. Dario Fo incoraggiava allora i ragazzi a usare il proprio dialetto, la lingua alla quale apparteneva la loro sfera emotiva. Non aveva alcuna importanza se il pubblico non avrebbe capito il senso delle parole: avrebbe compreso il ritmo delle emozioni. Quando la voce si lamenta, grida, borbotta è più affine al pensiero che al linguaggio.
La voce basta a calmare il bambino ancora escluso dall’uso della lingua: e questo perché ha un potere indipendente dalle parole. Quando sono diventata madre, uno dei tanti manuali che mi sono trovata a consultare insisteva su quanto fosse importante leggere ai neonati, quanto fondamentale il tono indipendentemente dalle parole usate. Il senso se ne sta rintanato dentro alle onde sonore. Ti mando un vocale di dieci minuti cantavano i The Giornalisti qualche anno fa. Il vocale è prima di tutto un modo, una postura del quotidiano. Con gli sms e le mail sembrava di essere tornati tutti alla scrittura. Oggi non ci si telefona più, le mail si mandano solo per lavoro. Tra amici ci si invia dei messaggi Whatsapp, ma anche i messaggi vocali – tantissimi tra i giovani. Riceverli è sempre imbarazzante (dove li ascolto, a che volume, e se ci sono delle parolacce, degli insulti, delle volgarità, devo accertarmi che non ci sia mia figlia nei paraggi; figuriamoci se è notte o mattina presto…). È come la segreteria telefonica del passato, ma a ciclo continuo, in botta e risposta. Anche l’assenza di pudore con la quale si registrano e si ascoltano fa parte di una nuova convenzione. Possono essere commenti veloci oppure messaggi più articolati di quelli che non saremmo in grado di scrivere di fretta sullo schermo, ma possono trasformarsi anche in piccole narrazioni orali del nostro quotidiano, attimi in cui torniamo a essere pura voce e racconto.
Da molti anni il mercato degli audiolibri si è diffuso sempre di più, ma certo quello è una declinazione della parola scritta, possibilità di fruirla in modi diversi. Anni fa mi sono imbattuta in alcuni artisti del suono che avevano prodotto una serie di audioguide di New York. Ogni percorso era a tema e coinvolgeva uno scrittore. Bastava scaricare la traccia desiderata, recarsi in un luogo stabilito e schiacciare play per essere ritrovarsi, ad esempio, a passeggiare con Paul Auster per le vie di Brooklyn. Era una specie di guida a immersione totale. Pioniera della febbre dei podcast che si sta diffondendo negli ultimi tempi. Chi è Lolita? si chiede Jamie Loftus, ideatrice del podcast intorno alla figura di Dolores Haze; chi è davvero, rispetto all’icona seduttiva che è rimasta nei decenni dalla pubblicazione del romanzo di Nabokov. Lolita, gioia della vita di Humbert, fuoco dei suoi lombi; Lolita ricorre nei discorsi, a lei si sono ispirate canzoni (i Police con Don’t stand so close to me), film, pubblicità, spettacoli teatrali, eppure ci siamo dimenticati della dodicenne acerba vittima del suo patrigno. L’innocenza è stata sostituita dall’icona di una certa malizia, un certo tipo di seduzione bamboleggiante: il mito della ninfa.
È interessante come questo viaggio d’ascolto sia un viaggio attraverso la distorsione di un’immagine e insieme la presa di coscienza di un inciampo culturale; di una visione condivisa e della possibilità di correggerla. Non abbiamo bisogno di immagini, perché tutto quello che è evocato fa già parte di una cultura pop: qualcosa che noi tutti abbiamo condiviso negli anni. Nel 1936, Walter Benjamin pubblicava Il Narratore. Considerazioni sull’opera di Nikolaj Leskov. Di Leskov e della sua opera, però, in quel libro si parla ben poco. Benjamin parla dell’arte di narrare, della scomparsa dei bravi narratori, perché i bravi narratori erano quelli orali: coloro che con la loro arte davano senso e coesione a un’intera comunità. Quando gli uomini hanno smesso di raccontarsi storie e si sono chiusi in una stanza a scriverle, hanno decretato la fine di questo tipo di scambio. Il romanzo porta lo scrittore a scrivere in solitudine, a ignorare la comunità. Saper narrare voleva dire plasmare le esperienze e condividerle sottolineandone il valore universale. Il narratore era l’uomo nella cui voce risuonava il mondo intero.
Quando ero una bambina, la maestra ci chiese di intervistare un nonno o un parente anziano, chiedendogli di quando era bambino e poi adulto: era un modo per recuperare la memoria storica attraverso l’esperienza particolare delle persone e delle famiglie. Mia nonna Tesorina aveva una memoria eccezionale sia per i suoi giochi di bambina prima degli anni Venti, sia per le vicende della guerra - il gatto Bianchino scappato e tornato impolverato e irriconoscibile, la fuga nel nonno sulle montagne nel 1943 e la sua scomparsa durata mesi, e poi quel ritorno rocambolesco a piedi dall’Austria, quel corpo diverso traumatizzato, che non sarebbe più stato lo stesso. Quella preziosissima audiocassetta che avevo registrato è andata perduta negli innumerevoli traslochi della mia famiglia, ma ritrovo nostalgicamente il sapore di quel ricordo in un’iniziativa dell’Istituto Storico di Modena: l’Archivio Storico delle Voci. Interviste ai partigiani emiliani ancora in vita, ai testimoni e ai rappresentanti della parte avversa: un affresco composto dalle tonalità, dalla raucedine, dalla passione inesausta e dai racconti ancora vivi nella memoria di ognuna delle voci. La storia raccontata dai suoi testimoni; il suono degli anni.
“Ciò che nel linguaggio meglio si comprende non è la parola, bensì il tono, l’intensità, la modulazione, il ritmo con cui una serie di parole vengono pronunciate. Insomma la musica che sta dietro le parole, la passione dietro questa musica, la personalità dietro questa passione, quindi tutto quanto non può essere scritto”, diceva Nietzsche. Il corpo della voce è stata una mostra al Palazzo delle Esposizioni di Roma, mostra che intendeva indagare la voce come phonè, come puro suono. Not I di Samuel Beckett iniziava da una bocca parlante, una bocca che articolava suoni, immersa nel suo dire delirante. Il gesto fono-articolatorio diventa parola performativa, con una valenza magica aldilà del valore semantico. Demetrio Stratos fece un cammino lungo quattro anni per recuperare la valenza della voce in questo senso. È stata una ricerca forsennata, la sua: sentiva l’esigenza di indagare la voce dal punto di vista scientifico, seppur nel ritorno dell’arcaicità. Lui che cantava la voce, che la dominava, la scindeva, ne faceva magia. “La voce recitata ha un’intelaiatura temporale che può essere chiamata musicale, una forma di arte vocale intermedia tra canto e parola”. Molto del lavoro di Carmelo Bene sulla phoné parte da qui. Nel suo teatro (o antiteatro) la voce si scorpora nell’alone del suono. Il senso del dire sta nel dire cantato. Nella morbidezza di una voce che sale, scende, sospira, fa balzi, capriole, grida. Accompagnando spesso quel simile meccanismo di caduta, smontaggio, rimontaggio che Bene riservava anche al corpo scenico, alla macchina attoriale.
La voce è il suo incanto, i suoi prodigi. Da qualche anno esiste una nuova pratica. Si chiama ASMR. L’acronimo significa: Autonomous Sensory Meridian Response: risposta autonoma del meridiano sensoriale, anche se in realtà la definizione spiega poco. È una sensazione di rilassamento provocata da alcuni suoni e tonalità della voce che si accompagna spesso a formicolii alla base della testa. Ci sono molti video online: gli artisti di questa pratica sussurrano in microfoni super sensibili, voce bassa, tamburellamenti, fruscii. A volte accarezzano lo schermo, ci cullano con il rumore della matita, sfregano le dita, ricostruiscono con i suoni esperienze rilassanti. È un richiamo a sensazioni dimenticate, un subconscio di pace: proprio come quando nostra madre o nostro padre ci raccontavano le favole. Nel film Her (2013) Joaquin Phoenix si innamorava di una voce, quella dell’interfaccia del sistema informatico del suo computer. Una voce irresistibile e intelligente, di nome Samantha, così tridimensionale da assomigliare una presenza reale. Anche noi ci stiamo innamorando nuovamente del racconto orale, di questo affidarci ai suoni e al corpo delle parole. Ci appassioniamo alla nuova serie Calls, in cui non sono presenti immagini ma solo onde sonore e dialoghi. Non ci importa di vedere Rosario Dawson, godiamo del solo sentirla. Non ci interessano le ambientazioni e i costumi di scena perché li creiamo nella nostra mente. Torniamo al suono della nostra immaginazione, riacquisiamo una postura dimenticata e torniamo a esercitare la nostra originaria capacità di ascoltare. Non può che farci bene.