La filosofia di Emanuele Severino, cieca di fronte al tragico, cade nel comico
Una questione di metafisica, di “princìpi primi”, di essere e divenire, di essere e di nulla, di tempo e di eternità
Non è una questione di effimeri articoli di giornale: quella di cui qui si parlerà è una questione di metafisica, di filosofia dei “princìpi primi”, di essere e divenire, di essere e di nulla, di tempo e di eternità. Ho ricevuto la settimana scorsa un dattiloscritto del filosofo e scrittore Sossio Giametta, cinque fitte pagine destinate non so bene a chi, a quale pubblicazione, oltre che a me in forma privata di lettera. Giametta ha collaborato con Giorgio Colli e Mazzino Montinari all’edizione critica Adelphi delle opere di Nietzsche e ha curato recentemente alcune opere dello stesso “esplosivo” filosofo in edizione tascabile. Ma nelle pagine che ho ricevuto per posta l’argomento è la filosofia di Emanuele Severino, scomparso nel gennaio del 2020, che fu commemorato subito dopo sul Corriere della Sera da Mauro Bonazzi come “pensatore di statura internazionale”. Giametta non ha sottovalutato l’articolo di Bonazzi: anzi lo usa come attendibile punto di partenza “che mette in luce i punti salienti del pensiero di Severino”, per muovergli le proprie obiezioni. Dei morti non si può dire che bene; ma quello di Severino, dice Giametta, è un “lascito filosofico imponente” e “non può rimanere senza commenti”. Infatti “la filosofia è e non può non essere, una guerra alla quale nessun filosofo può sottrarsi”.
Bene, d’accordo. Leggo con molto interesse le pagine che Giametta mi ha spedito. Cercherò di capire se ho fatto bene o male a criticare ripetutamente Severino in modesti articoli da non filosofo professionale, anche se ispirato e confortato dal settecentesco Georg Lichtenberg, il quale scrisse che “la gente del mestiere spesso non conosce il meglio”. Difficile dire quale sia il meglio su argomenti come l’essere e il divenire, su cui Severino ha pubblicato diverse decine di volumi Adelphi e Rizzoli ripetendo un solo argomento. So e capisco da puro dilettante che in filosofia nessuno è specialista esclusivo quando si tratta di vita e di morte, di essere e di non essere. Dato che Severino ha voluto convincere il genere umano, e dunque anche me, che noi siamo e non diveniamo; che tutto e qualunque essere o cosa non devono temere più il nulla, che per sua specifica identità non esiste; allora la favola riguarda anche me e quello che dice Severino mi riguarda, non “anche se”, ma “proprio perché” si tratta di princìpi primi e di quella che, sempre Severino, ha definito “la follia dell’occidente”, il credere cioè che l’essere possa mescolarsi al nulla, a quel suo inesistente contrario che non può certo minacciarlo.
Giametta precisa che Severino era un uomo con cui ebbe rapporti cordiali. Tuttavia, “amicus Plato, sed magis amica veritas”; e la verità su Severino, conclude Giametta, è la comicità del suo ossessivo unico tema e argomento: solo l’essere è, il divenire non è perché nega la permanenza extratemporale dell’essere. Comico è dunque Severino in quanto superfilosofo e filosofo in essenza o quintessenza, a cui manca l’esperienza, la percezione di ciò che logicamente afferma; a cui manca la sensibilità e il senso del tragico. Per lui, come per troppi filosofi (è la tesi di Giametta), il pensare autodifensivo e autoconsolatorio conta più della realtà. Inoltre e infine per Severino la morte non esiste, non esistono miseria, fragilità, caducità, fugacità e anche preziosa gioia dell’attimo che esce dal nulla, torna nel nulla e poi di nuovo compare.
Bella la tesi di Giametta su Severino. Potrebbe essere enunciata così: chi rifiuta, chi nega, chi non vede il tragico finisce fatalmente nel comico. I filosofi sono comici soprattutto quando non vedono il proprio poco o nulla. Confezionano corazze logiche intessute di sottigliezze e citazioni che permettono loro di vivere nell’universale mentale. Esiste, di quale realtà esiste l’universale, l’essenza, le categorie? Ammettiamo pure che il divenire sia una pura apparenza illusoria, dietro la quale c’è la realtà stabilmente eterna e immobile dell’essere. Del divenire però abbiamo continua esperienza. Quale esperienza abbiamo invece dell’essere sempre gioioso e glorioso di Severino? Chi ce l’ha questa esperienza? Ce l’ha avuta Severino? E se l’ha avuta, perché non ci ha mai spiegato come ha fatto lui ad averla in esclusiva? Lui, il solo a non essere né folle né illuso in tutta la storia dell’occidente? Né Parmenide, né Heidegger lo hanno eguagliato. Lui ha creduto questo? Bisogna credergli sulla parola? Sulle sue troppe parole così tipicamente ossessionate dal divenire e dal desiderio di dominare a rigor di logica su tutte le altre filosofie?
Alle osservazioni di Giametta aggiungerei una considerazione storica, se la storia esiste, come credo, pur divenendo. Severino (come qualche suo simile) è soprattutto un falso mistico. Dice che è follia non accorgersi di essere “da sempre salvi, nella Gloria e nella Gioia”. Dice che questa è la conoscenza che salva. Purtroppo non dice di che genere di conoscenza è la conoscenza che salva: la conoscenza perpetua, inalterabile di essere nella Gloria e nella Gioia. Di certe cose non c’è conoscenza se non c’è esperienza ininterrotta e sempre uguale a se stessa. Severino parla fingendo di essere un mistico, finge comicamente di vivere in stato di estasi. Usa argomenti da seguace del Vedanta non-dualistico induista: li usa a vuoto, li spreca. Eppure, da quel professore critico dell’occidente che vuole essere, non cita mai la fonte. Possibile che chi si intestardisce come lui sulla follia dell’occidente, non sappia proprio nulla dell’oriente? La sua filosofia o è un furto maldestro o è un astuto imbroglio.