I 50 anni del manifesto
Un giornale da sempre aperto allo spirito critico, lievito e pietra di paragone della sinistra in dissesto
Il manifesto compie 50 anni come quotidiano, prima era apparsa una rivista omonima che era stata giudicata come un organo di corrente, inaccettabile nel Pci che aveva risposto espellendo o radiando i principali esponenti del gruppo “frazionista”. Fa una certa impressione constatare, come scrive Aldo Tortorella, “quella che pareva una corazzata è affondata. Il vascello è rimasto a galla e continua a navigare tra le bufere”.
La storia del “quotidiano comunista” non è lineare, c’è stata una fase in cui si sentiva sostanzialmente l’organo di informazione di una minuscola formazione politica di estrema sinistra, poi è man mano diventato una palestra di idee e di curiosità essenzialmente volta a costruire una visione critica della società capitalistica. Forse il segreto della sua longevità sta in una caratteristica che ne connotava già le origini anche se non era ancora proclamata. Si trattava di una impostazione comunista ma non leninista.
Anche se oggi una disquisizione ideologica di questo tipo può apparire accademica, in realtà alla base della rivolta dei fondatori del manifesto non c’era solo il fastidio per l’osservanza sovietica del Pci di allora. Nel rifiuto del centralismo democratico, in nome del quale furono decretate le espulsioni, c’erano due motivazioni. In primo luogo c’era l’intuizione che il rapporto con gli intellettuali, modellato da Palmiro Togliatti e gestito da Mario Alicata, non reggeva più. In secondo luogo c’era la convinzione illusoria che l’organizzazione del partito non avrebbe retto ai movimenti giovanili, che i “fondi di sezione”, come diceva Rossana Rossanda, non avrebbero frenato né integrato le spinte innovative che venivano dalla società in subbuglio della fine degli anni Sessanta.
Il disegno politico era elitario ed è ben presto fallito diventando una delle numerose sigle della sinistra extra-parlamentare o, quando andava bene, micro-parlamentare. Sul piano culturale, invece, quell’idea di comunismo come “critica della realtà esistente” modellato sul pensiero di Rosa Luxemburg, continua a essere feconda. Ha inseguito, sulle pagine del manifesto, mode e illusioni, dalla grande rivoluzione culturale proletaria all’ambientalismo radicale, ma è restato sempre uno spazio per lo spirito critico, da quello corrosivo e spesso caustico di Riccardo Barenghi a quello più pacato ma non disilluso dell’attuale direttrice Norma Rangeri, che può celebrare oggi l’inaspettato anniversario parlando un po’ enfaticamente ma non senza qualche buona ragione di un manifesto che “va oltre l’impegno informativo… E’ un’idea, una scuola, un sentimento”.
Nel grande cantiere un po’ dissestato della sinistra italiana, che sembra aver perso la memoria di sé (o averla ossificata, nelle formazioni minori, in una specie di Vittoriale dannunziano), una voce che, senza pretese di organicità, analizza i problemi con una visuale non provinciale mantenendo un legame con il comunismo, ma non con i regimi comunisti, può essere un lievito e una pietra di paragone, che non dà soluzioni ma inquadra le questioni, per cominciare, nella storia e nella geografia. Il che non è poco.