“La primavera perfetta” di Enrico Brizzi
L’armatura del presente messa alla prova dalla nudità della giovinezza: una storia che parte e non smette mai di far l’altalena sui burroni che si spalancano sotto ai nostri piedi
All’improvviso il percorso che mi ha portato a diventare adulto mi appare simile a un progressivo corazzamento sotto a un’armatura di indifferenza, progettata per resistere alle delusioni e all’angoscia”, si legge in uno dei passaggi più schietti de “La primavera perfetta” (HarperCollins, pagg. 425, euro 19,50), la storia di Luca Fanti e di come, in bilico lungo un crinale e rotolato sempre più a valle, alla fine riemerga e torni a vedere, epifania dopo epifania, tutto il panorama della vita snodarsi solatìo davanti ai suoi occhi. Non si tratta, però, di una storia banalmente edificante come potrebbe sembrare leggendo qua e là ciò che ne è stato scritto, ma di una storia più complessa, che accetta tutte le contraddizioni e l’essenza drammatica di ogni tentativo – frustrato più volte, e ripetutamente – di una ricostruzione di se stessi che è sempre il lavoro più ingrato e peggio pagato, compiuto augurandosi che poi, forse, chissà, con l’aiuto della fortuna, un giorno la sorte tornerà a sorriderci.
Una storia che parte bene, ma non tanto per finir bene dopo una lunga parentesi di male a farcire innocenza e buone intenzioni, no: una storia che parte e non smette mai di far l’altalena sui burroni che si spalancano sotto ai nostri piedi soprattutto nel momento in cui crediamo che i burroni non ci siano più, o che non ci riguardino. Una storia che racconta il nostro equilibrio incerto lungo tutte le faglie della vita. A tener lontano l’inizio dalla fine, come sa fare ogni buon narratore, una serie di avventure e disavventure, ma la vera protagonista è la fatica atletica dell’esistenza: i gesti sbagliati, i salti mortali riusciti male, le gravi goffaggini cadendo nel vuoto, le inutili prodezze autodistruttive – e un matrimonio che rotola, la credibilità che scricchiola, tasche vuote, morale a terra; poi sì, anche l’amore: ingrato perché porta dove vanno a finire le canzoni d’amore, soverchiate da inimicizie burocratizzate e da avvocati rapinosamente crudeli, ma anche balzo sfolgorante necessario a ogni rinascita.
Di ogni scrittore che abbia qualcosa da dire, si può dire che costruisce storie incentrate sempre su un solo tema, su una sola ossessione, su un’unica certezza continuamente rimessa in gioco. “La primavera perfetta” ribadisce che la centralità della giovinezza – la sua persistenza – è l’epicentro di tutta la ricca narrativa di Enrico Brizzi, che muove sempre da una domanda: chi siamo diventati, alla luce di ciò che volevamo diventare quando eravamo giovani? Cosa resta di noi? L’armatura corazzata del presente regge senza vergogna il confronto con la gioiosa nudità di allora? Siamo feriti? Siamo interi?
Generoso di penna, invenzioni e storie, Enrico Brizzi appartiene al mazzo di scrittori cui dobbiamo voler bene perché di simili, al di là del singolo esito narrativo, in fondo non se ne fanno più, sobillati come siamo, tutti o quasi, da un’idea tragicamente aspirazionale di letteratura, ossessionati dal formalismo al punto da esserci consegnati a una rigorosa sterilità emotiva. Brizzi resiste, reinventa se stesso e i propri temi in possibilità sempre riconoscibili ma nuove, ci diverte e non rinuncia a raccontare la grandiosa pochezza umana, la volontà di essere migliore e le ineluttabili frustrazioni che ne derivano. Tenendo un occhio alla strada ma anche al retrovisore, perché la realtà è davanti ma il significato di ciò che siamo è alle nostre spalle, ed è inevitabile farci i conti. “Alla fine basta ricordare come ci si sentiva da giovani” – scrive – per non essere uomini mostruosi.