L'eredità del pensatore
Quando Gramsci asciugava i piatti e discuteva in cucina con le compagne
Il rivoluzionario comunista non accettava né la subalternità tradizionale della donna, né quella che le tocca nella modernità americana e sovietica, prefigurando così una società ben diversa da quella proposta nel Dopoguerra dal Pci
Dell’eredità di Antonio Gramsci è stato fatto di tutto. Dopo il Gramsci togliattiano abbiamo avuto quello dei cultural studies; il Gramsci postcoloniale; addirittura il Gramsci queer. E oggi l’editore Donzelli ci propone un “Gramsci e le donne” firmato da Noemi Ghetti. Ma in questo caso il tema non è troppo pretestuoso, visto che alcuni episodi cruciali della parabola gramsciana sono legati a figure femminili. Ovviamente ci si riferisce in primis alle tre sorelle Schucht. Più che a Cechov, il passaggio dal flirt con Eugenia al matrimonio con Giulia e all’ambigua relazione con Tatiana fa pensare a una riscrittura in chiave tragica di un famoso capitolo della coeva “Coscienza di Zeno”. Ma nei rapporti di Gramsci, l’aspetto intimo e quello politico sono intrecciati sempre. Il rigore e l’esuberanza con cui li vive sembrano voler costringere sé e l’altro a una piena espressione delle rispettive energie, addirittura a una sorta di trasfigurazione.
Il leader comunista è per vocazione un pedagogo. Chi conosce i suoi epistolari sa quanto spesso escogiti degli stratagemmi didattici, e come siano ogni volta affettuosamente ma anche severamente cuciti addosso all’interlocutore – come coinvolgano senza scampo il suo modo di stare al mondo. È un’abitudine che presuppone una grande e spontanea curiosità per i più vari caratteri umani. In questo senso Gramsci è molto diverso da Lenin, che nella sua ascesi fredda somiglia un po’ al maestro secondo don Milani, ossia non ha interessi fuori dalla sua attività di rivoluzionario professionale. Gramsci semmai ricorda Marx, ma un Marx senza pedanteria né astratti furori teutonici: sferzante e insieme estroso, rifiuta ogni concetto angusto dell’utilità sociale in nome di un integrale sviluppo della persona, ed è convinto che questo sviluppo implichi un dialogo a tutto campo con i propri cari.
In una lettera del 1924 a Giulia si chiede anzi se “era possibile amare una collettività, se non si era amato profondamente delle singole creature umane”. Su questa frase si misura forse la credibilità di un rivoluzionario, che se è davvero tale dà già corpo nel presente al futuro che intende costruire. Così, sostiene la Ghetti, fa Gramsci nei suoi rapporti con l’altro sesso, e nelle sue riflessioni sulla questione femminile. Se Lenin la liquida con impazienza, l’italiano se ne occupa fin dai tempi delle critiche teatrali sull’Avanti!, dove proprio mentre in Russia le donne iniziano la rivoluzione, loda la serietà con cui la Nora ibseniana tenta di conquistarsi un suo “mondo morale in atto”. Gramsci non accetta né la subalternità tradizionale della donna, né quella che le tocca nella modernità americana e sovietica. E quanto alla sua esperienza personale, va registrata “la pressante proposta di condivisione del lavoro intellettuale rivolta alle donne della sua vita”.
La Ghetti le ritrae quasi tutte, dalle tre sorelle con cui leggeva a Ghilarza i romanzi d’appendice, trent’anni più tardi argomento delle note sulla letteratura nazionale-popolare, fino appunto alle tre sorelle Schucht, passando per Pia Carena e per quella Camilla Ravera che fu la prima donna segretaria di un partito, all’interno di un movimento comunista internazionale nel quale pure spiccavano dirigenti come Luxemburg, Zetkin, Kollontaj e Armand. Ma impressiona soprattutto la testimonianza di Teresa Noce, che ricorda Gramsci in cucina, mentre aiuta ad asciugare i piatti e intavola discussioni con le compagne: un modo per superare almeno provvisoriamente quel riflesso famigliare della divisione del lavoro che penetrava anche nelle case dei militanti, dove le donne confinate alle fatiche domestiche rimanevano le “proletarie dei proletari”. “Antonio” prefigurava così una società ben diversa da quella proposta nel Dopoguerra dal Pci, che quando Longo annullerà il matrimonio con la Noce tramite una firma falsa a San Marino non emarginerà lui ma lei.
“Sapeva dire le cose più brutali con dolcezza” ha scritto di Gramsci la Carena; e vale anche l’opposto: nel dire le cose più dolci manteneva spesso un tono imperioso e secco, perfino aridamente razionalistico. Sta anche qui il fascino dei suoi “Quaderni” e delle sue lettere, dove le increspature emotive coincidono col rem tene del pensiero. Quella prosa è di per sé una critica spietata del gergo che intorno a Gramsci ha prodotto la nostra cultura; ed è una critica spietata anche del gergo usato oggi per discutere delle donne e di altre categorie deboli, che con la sua terminologia corporativa esprime il contrario dell’emancipazione.
Perché Leonardo passa a Brera