Dal cinema alle Pantere nere
Jean Seberg, una diva smarrita nel labirinto dei suoi amori
La relazione con Romain Gary, l’attivismo politico, e poi la caduta nell’inferno dei disturbi mentali. Così l’attrice simbolo della Nouvelle Vague divenne una vittima di manipolatori e violenti. E dell’Fbi
Quando il regista Otto Preminger, con l’arroganza di un demiurgo, decide di affidare il monumentale ruolo di Giovanna d’Arco a una fanciulla senza arte né parte, non sa che le conseguenze della sua scelta segneranno per sempre il destino di quella ragazza. Sono diciottomila le aspiranti pulzelle che rispondono al concorso indetto dalla produzione del film. Dai sacchi stracolmi di fotografie provenienti da tutti gli Stati Uniti emerge il faccino di Jean Seberg, diciassette anni. Non è stata sua l’idea di inviare la foto, è un’iniziativa del suo lungimirante vicino di casa. Preminger convoca la ragazza, le fa tagliare i capelli e la sottopone a un provino che mette fine alle ricerche: ha trovato la sua Santa Giovanna.
Le riprese saranno un calvario, il cinema non è quello che Jean immaginava. Preminger (che l’attrice Joan Crawford definì “l’ebreo nazista”) si comporta come il dispotico comandante da lui interpretato, non a caso, nel meraviglioso Stalag 17 di Billy Wilder. Jean viene segregata durante il periodo delle riprese, non le è permesso di uscire dal suo albergo, non può ricevere visite (“lo scopo era di provocare lo stato d’animo giusto per interpretare il personaggio” si giustificherà anni dopo Preminger). Quando viene girata la scena del rogo, le grida non sono quelle di un’attrice che sta recitando: le fiamme bruciano sul serio, e la cicatrice di un’ustione sul ventre ne sarà la conseguenza.
Jean Seberg debutta nel ruolo di una martire, e forse è proprio la vocazione al martirio che il grande regista austriaco ha riconosciuto nel suo sguardo ancora innocente. Sebbene il ruolo che la consegnerà alla storia del cinema arriverà anni dopo, dall’altra parte dell’oceano, per intuizione di un regista giovane e geniale, Jean Luc Godard, il senso di quella esperienza iniziatica non si esaurirà con la fine delle riprese. Le fiamme di quel primo rogo bruceranno a lungo.
Malgrado la sceneggiatura di Graham Greene e la regia del pluripremiato Preminger, Santa Giovanna si rivela un flop. Le critiche si accaniscono soprattutto sull’interpretazione di Jean Seberg (“farebbe bene a tornare nella fattoria da cui proviene”) e lei medita davvero di mollare tutto e tornarsene a casa, a Marshalltown, in Iowa, per continuare a occuparsi di ciò che più le sta a cuore: la difesa delle minoranze. A quattordici anni si è iscritta all’associazione locale che combatte la discriminazione razziale: per Jean i reietti e gli esclusi sono un chiodo fisso.
Un chiodo fisso deve averlo anche Preminger evidentemente, poiché, nonostante le critiche (o forse a causa di queste), la vuole di nuovo protagonista di un suo film: Bonjour Tristesse, riduzione cinematografica del bestseller di Françoise Sagan. E’ l’occasione per entrambi di rovesciare l’opinione della critica che invece non retrocede di un passo e conferma il giudizio severo sulle capacità della giovane attrice (sbagliando, a mio avviso, basta vedere lo splendore che illumina lo schermo quando appare). “Nei due anni successivi all’uscita del film sono sprofondata in un abisso nero e spaventoso” rivelerà tempo dopo in un’intervista. Le crepe cominciano a scricchiolare ma “è troppo tardi ormai per avere paura” come dice Patricia Franchini, il personaggio che segnerà la svolta della sua carriera (una delle tante battute profetiche che Jean Seberg pronuncerà mediante i personaggi dei suoi film).
François Truffaut, allora critico cinematografico, elogia l’interpretazione di Seberg nel film di Preminger: “I suoi immensi occhi azzurri hanno un luccichio di malizia infantile… quando Jean Seberg appare sullo schermo non puoi guardare nient’altro. Ogni suo movimento è aggraziato, ogni sguardo è preciso. La forma della sua testa, la sua silhouette, la sua camminata, tutto è perfetto. Un sex appeal mai visto prima d’ora…”. Lei, commossa, gli scriverà una lettera nel suo francese stentato, per ringraziarlo. La silhouette di Jean si dimostrerà perfetta anche per il personaggio della venditrice di giornali di A bout de souffle, il cult movie di Jean Luc Godard, tratto da un soggetto di Truffaut. Quel piccolo film, girato con pochi mezzi, sarà uno spartiacque non solo per la carriera di Jean Seberg ma anche per la cinematografia di quegli anni, che si trova spiazzata di fronte a un linguaggio innovativo e a suo modo eversivo (non ci si stanca di rivederlo A bout de souffle, non fosse altro che per il finale, la corsa sgangherata di Belmondo moribondo, le sue assurde smorfie prima di chiudere gli occhi per sempre e il primo piano di Jean “déguelasse…” che guarda dentro la macchina da presa, ci guarda, strusciandosi il pollice sulle labbra). L’americana di origini svedesi Jean Seberg diventa il simbolo del nuovo cinema francese, come lei moderno e anticonformista (ma sarebbe stata altrettanto perfetta in un film di Ingmar Bergman, magari come sorella di Bibi Andersson…).
La Francia diventa dunque il suo paese d’elezione, anche sentimentale. Il primo marito è un avvocato parigino con ambizioni da regista conosciuto durante le riprese di Bonjour Tristesse. Quando François Moreuil accompagna Jean in America per le riprese di un film, commette l’errore di presentarle Romain Gary, allora console a Los Angeles. Dovendo tornare a Parigi, ingenuamente “affida” la giovane moglie alla vecchia volpe Gary, e l’esito sarà scontato.
Lo scrittore rappresenterà per Jean un’occasione di crescita intellettuale e un riferimento insostituibile anche quando le loro vite, inevitabilmente, prenderanno strade diverse. I venticinque anni di differenza avvalorano l’immagine di coppia ideale: la giovane stella del cinema e il suo Pigmalione. A lungo la stampa presterà fede a questa illusione. Gary e Seberg si amano, ma sono entrambi psicologicamente instabili: lei si annulla, lui si moltiplica, spinti verso il comune obiettivo di conquistare una serenità destinata a rimanere irraggiungibile. Dei due la più fragile è Jean: il suo bisogno spasmodico di protezione la rende vulnerabile, Gary ne è consapevole e tenterà fino alla fine di proteggerla dall’autodistruzione e dalle persone che via via approfitteranno di lei, alternando il ruolo di marito a quello paterno. Il primo ricovero in una clinica psichiatrica avviene nel 1961 durante le riprese di La Récréation, il film di Moreuil che Jean si trova costretta a girare malgrado sia ormai nota la sua relazione con Gary. La tensione è ingovernabile e lei crolla (Gary, per non smentire la sua fama di Fregoli, andrà a trovarla travestito da medico…). Ottenuto il divorzio dal primo marito, Jean sposa Romain Gary in Corsica e nel 1963 nasce il suo unico figlio, Diego (in realtà il bambino era nato nel ’62, un anno prima del matrimonio, e per questo motivo Gary sfrutta i suoi contatti diplomatici per registrare l’atto di nascita in data successiva alle nozze).
Gli anni Sessanta rappresentano un decennio fondamentale nella vita di Jean Seberg, nel bene e nel male. I movimenti pacifisti nascenti risvegliano la coscienza politica trascurata a favore della carriera cinematografica. Seguendo l’esempio di altri colleghi (Jane Fonda, Paul Newman, Marlon Brando) Jean si espone a favore degli emarginati, partecipa alle manifestazioni, lancia appelli, si fa paladina delle proteste, e si lascia travolgere dalla passione. La villa di Los Angeles sarà messa a disposizione per ospitare riunioni di militanti neri appartenenti al movimento Black Panthers, nato in contrapposizione al pacifismo professato da Martin Luther King. Si battono per il diritto all’istruzione, agli alloggi, promuovono la creazione di uno Stato Nero Indipendente privilegiando l’azione diretta rispetto ai comizi. Jean foraggia la loro causa con i soldi guadagnati col cinema, molti dei quali saranno spesi nell’acquisto di armi. La disponibilità di animo e di portafoglio la rende facile preda di approfittatori, primo fra tutti Hakim Jamal, un balordo violento e manipolatore, cugino di Malcolm X. Romain Gary, conoscendo l’ingenuità della moglie, fiuta il pericolo ma non riuscirà a ostacolare la relazione fra i due, che si fa sempre più morbosa. Quando Martin Luther King viene assassinato nel 1968, Jean è sotto choc. Quello stesso anno, invitata a Malibu da Robert Kennedy insieme al marito, cerca di perorare la causa dei neri con il candidato alla Casa Bianca il quale saggiamente suggerisce di non esporsi, invito che Jean disattende, mettendosi ulteriormente in mostra. Da quel momento Jean Seberg diventa, a tutti gli effetti, un’estremista da tenere sotto controllo. Il capo dell’Fbi Hoover la fa sorvegliare, e nel 1969 apre un dossier su di lei nell’ambito del programma di controspionaggio internazionale Cointelpro. Per due anni non le dà pace: telefono intercettato, pedinamenti, ispezioni nei suoi appartamenti, eseguite soprattutto durante le assenze di Romain Gary che fa avanti e indietro con la Francia. Jean è terrorizzata, non riesce a dormire, si stordisce di tranquillanti. La relazione con Jamal è sempre più velenosa, lui la riempie di botte e lei, soggiogata, incassa le violenze come una giusta punizione nei confronti della razza bianca. La vocazione al martirio ha trovato la sua celebrazione. Il matrimonio con Gary è agli sgoccioli ma nonostante la separazione legale, la coppia seguiterà ad abitare sotto lo stesso tetto nella grande casa di rue du Bac, a Parigi, dove un giorno si presenta Jamal, a caccia di soldi. Jean naturalmente cede, lui torna negli Stati Uniti e uccide un poliziotto ma per un vizio di forma non finisce in carcere. Jean si precipita in suo soccorso e insieme fuggono in Marocco. Un viaggio insensato che scatenerà la reazione della comunità nera aizzata dalla moglie di Jamal che definisce pubblicamente Jean “la cagna bianca”. La generosa Seberg ha superato il limite, i nemici ora sono dappertutto. “Si sono approfittati di lei facendo leva sul doppio senso di colpa: quello della star e quello della luterana, vale a dire l’apoteosi del peccato originale” scriverà Gary nel libro, Chien Blanc, apologo sul razzismo ispirato all’esperienza della moglie.
E il cinema? “Ho sempre avuto più a cuore la vita” dirà Jean Seberg che non sarà mai capace di considerare il suo lavoro come un rifugio, né a superare il trauma dell’esordio. “In fondo ho sempre avuto la sensazione che la macchina da presa fosse un fucile, un fucile puntato contro di me”.
“Contro” è la parola chiave, il tarlo che martella la mente degli insicuri, dei paranoici, di chi si sente inadeguato. A lungo si è pensato che la persecuzione lamentata da Jean fosse il prodotto di un delirio paranoico, ma la verità (ammessa soltanto anni dopo la morte di Hoover) è che nei suoi confronti l’Fbi esercitò un vero e proprio accanimento, culminato con un infame colpo basso.
“Ho sempre avuto la sensazione che la macchina da presa fosse un fucile, un fucile puntato contro di me”, diceva Jean del suo rapporto col cinema
Durante le riprese di un film in Messico (ogni tanto Jean accettava di girare dei film trascurabili, con il solo scopo di guadagnare, il coinvolgimento politico ne aveva offuscato il prestigio hollywoodiano), i servizi segreti intercettano una sua conversazione telefonica con un’amica, nella quale rivela di essere incinta. E’ l’occasione per una definitiva campagna denigratoria nei suoi confronti: un agente dell’Fbi riferisce a un giornalista la notizia infondata secondo la quale Jean Seberg aspetterebbe un figlio da un esponente delle Pantere Nere. Tutti i giornali rilanciano il falso scoop. Jean si dispera (“non perché dicevano che ero incinta di un nero ma perché avevano mentito”) e ricorre al solo rimedio che conosce per consolarsi: durante la notte ingurgita dei sonniferi e si allontana sulla spiaggia di Marbella, dove si è rifugiata. La trovano priva di sensi ma ancora viva. E’ il primo di una lunga serie di tentativi di suicidio. Gary come sempre la sostiene. Per mettere fine alle speculazioni rilascia una dichiarazione alla stampa affermando che il figlio è suo (in realtà quel bambino scandaloso è il frutto di una relazione occasionale con un giovane rivoluzionario messicano, a riprova di quanto fosse tragicamente romantica e ingenua e disperata la piccola Giovanna d’Arco…) ma l’abuso di psicofarmaci provoca la nascita prematura di una bambina, Nina, che muore pochi giorni dopo. E’ il punto di non ritorno, Jean Seberg non riuscirà mai a superare la perdita. Al funerale il corpicino sarà esposto in una bara trasparente, affinché sia evidente dal colore della pelle la menzogna divulgata dalla stampa. I rapporti con il paese natale si interrompono definitivamente. Dopo aver vinto la causa intentata ai giornali, Jean vola in Francia. Non tornerà mai più negli Stati Uniti.
I rapporti con la vita si interromperanno presto.
Gli anni Settanta si stemperano fra disperati tentativi di rinascite sentimentali, cadute nella depressione e illusori momenti di ripresa. La carriera artistica segue la curva ondivaga della sua vita ma il cinema europeo, tranne poche eccezioni, non ha molto da offrirle. Sono in pochi a non farsi spaventare dalla fragilità dell’attrice. Alcuni, i più cinici, o al contrario i più sensibili, intuiscono che se il “luccichio di malizia infantile” evocato un tempo da François Truffaut è definitivamente scomparso, quegli “immensi occhi azzurri” sono ora illuminati da una luce oscura e potentissima, una fiammella già presente in gioventù che solo un regista riuscì a cogliere, offrendo a Jean il ruolo più bello della sua carriera. E’ davvero un film sorprendente, il misconosciuto Lilith, ultima opera di Robert Rossen (il regista de Lo Spaccone) il cui titolo allude alla leggendaria prima moglie di Adamo, la lussuriosa Lilith, demone notturno e spaventoso, qui rappresentato con le sembianze di una giovane donna misteriosa, internata in un manicomio. La follia evocata quasi come un dono: “I’m happy because I’m mad” confesserà Lilith al reduce di guerra interpretato da Warren Beatty, ammaliato da quella creatura indecifrabile capace di osservare il mondo con uno sguardo che trascende l’umano, e per la quale Jean Seberg si rivela come l’unica possibile interprete. Un ruolo che avrebbe potuto valerle un Oscar e che per ragioni imperscrutabili è passato quasi del tutto inosservato.
La triste storia di Jean Seberg è fatta di illusioni perdute e occasioni mancate, ed è condivisibile il rimpianto per l’insuccesso di un film che lei ricorda come il migliore della sua carriera. Altri registi vedranno nella sua sofferenza non un limite, ma al contrario un potenziamento di espressione artistica, e fra loro mi fa piacere ricordare Nelo Risi e il suo film Ondata di calore, anch’esso misconosciuto eppure degno di grande attenzione. Basterebbe guardare i primi quindici minuti per rendersi conto quanto fosse ardito il cinema di quell’epoca. A nessuno oggi verrebbe in mente di puntare la macchina da presa su un’attrice che si aggira per le stanze di un appartamento compiendo azioni insensate, senza dire una parola per un quarto d’ora. Nelo Risi è sempre stato sensibile al tema della follia, e quella lunga sequenza di inseguimento del corpo magnifico di Jean Seberg, che si sdraia sul letto, si rialza, va in cucina, apre inutilmente dei cassetti, guarda fuori dalla finestra, scarabocchia dei fogli, risulta infine più eloquente di qualsiasi dialogo. Ma se in Ondata di calore la follia riguardava il personaggio (anche se veicolata dall’interprete…), ne Les hautes solitudes il regista Philippe Garrel si spinge oltre, mettendo in scena Jean Seberg nel ruolo di se stessa.
La cifra sperimentale qui si fa davvero estrema: ispirandosi allo stile underground di Andy Warhol, la macchina da presa di Garrel riprende tre donne (e che donne…!) e le segue separatamente, senza soluzione di continuità, senza sonoro, senza musica di accompagnamento. Un film muto radicale: l’idea, interessante, era di realizzare un film utilizzando il materiale tagliato al montaggio, peccato che il film originale non esistesse.
La cantante Nico dei Velvet Underground appare stralunata all’inizio, la spiritata Tina Aumont, alla fine. La parte centrale, più lunga, è focalizzata su Jean Seberg e le sue nevrosi, così evidenti nei primi piani impietosi e struggenti sul viso segnato dalla sofferenza. Niente trucco, nessun artificio. L’appartamento è quello in cui Jean Seberg abita realmente. E’ tutto vero, compreso il flacone di barbiturici che a un certo punto Jean manda giù con del whisky, vero anche quello. Garrel dovette interrompere le riprese…
Fra le occasioni perdute, una avrebbe forse potuto cambiare il destino, se non altro professionale, di Jean Seberg. François Truffaut, da sempre suo grande estimatore, la vuole come protagonista di Effetto Notte ma la chiamata arriva in uno dei tanti momenti bui e lei declina l’offerta. Jacqueline Bisset prenderà il suo posto. L’immagine cara ai registi della Nouvelle Vague non esiste più, il corpo adolescenziale è stato trasformato dagli eventi. Non lasciano il segno gli ultimi film interpretati da Jean Seberg. La fine degli anni Settanta le concede una breve parentesi sentimentale con il regista Dennis Berry (futuro marito di Anna Karina, la musa di Godard…) con il quale celebra il suo terzo matrimonio. Gireranno un film insieme e si lasceranno poco dopo.
Incapace di stare da sola finisce di nuovo fra le braccia di un violento, che ancora una volta approfitta della sua debolezza. E’ un giovane marocchino l’ultimo convivente di Jean Seberg, sarà anche l’ultima persona a vederla viva.
Il 29 agosto del 1979, dopo essere andata, sola, al cinema a vedere Clair de femme, il film che Costa Gavras ha tratto dal romanzo omonimo di Romain Gary, Jean rientra nel modesto appartamento che divide con Ahmed Hasni (quello in rue du Bac è stato venduto per comprare un ristorante ad Ahmed) e si mette a letto. Durante la notte si alza ed esce, con addosso solo scarpe e cappotto, nuda sotto. Per i successivi dieci giorni di lei non si saprà più nulla. Hasni ne denuncia la scomparsa e lancia appelli in televisione. Non si fa vivo nessuno.
Il 9 settembre il corpo di Jean Seberg viene ritrovato disteso sul sedile posteriore della sua auto parcheggiata in una strada del XVI arrondissement, avvolto da una coperta.
E’ morta da dieci giorni, dopo aver ingerito una quantità impressionante di alcool e barbiturici. Si è uccisa dunque nel mese di agosto, come altre volte aveva tentato di fare quando l’anniversario della morte di sua figlia si avvicinava. In mano, un bigliettino per il figlio Diego: “Perdonami, non ce la faccio più a combattere contro i miei nervi”.
Non aveva più un soldo, tutti i suoi averi erano stati trafugati da Hasni, che sarà arrestato poco dopo.
A una settimana dal ritrovamento del corpo, Romain Gary organizzerà una conferenza stampa per gridare a gran voce la responsabilità dell’Fbi nel crollo psicofisico della sua ex moglie. Non farà in tempo a leggere le pubbliche ammissioni rilasciate anni dopo da alcuni agenti, a conferma della sua denuncia.
Un anno dopo la morte di sua madre, Diego Gary, diciassette anni, dovrà leggere un analogo biglietto, trovato nella mano di suo padre Romain.