Il disagio della memoria
La paura di essere identificati e quindi discriminati in quanto ebrei, dunque diversi. Il desiderio di assimilazione. L’eccidio di palazzo Roques e i suoi risvolti tragici rivivono in un libro di Carla Forti
La comunità ebraica pisana aveva condiviso con la molto più numerosa e prestigiosa comunità livornese il privilegio di non essere mai stata richiusa in un ghetto. E Pisa passa per una delle città e delle province in cui meno accanita fu la persecuzione degli ebrei dopo che Vittorio Emanuele III, il 5 settembre 1938, proprio qui, nella tenuta di San Rossore, ebbe firmato le leggi razziste. L’episodio più orrendo avvenne in città nel 1944, ed è stato ricostruito da Carla Forti in un libro capitale uscito nel 1998 per Einaudi e ripubblicato e aggiornato ora per Quodlibet: “Il caso Pardo Roques. Un eccidio del 1944 tra memoria e oblio”. Nella nuova edizione, trascorsi i 70 anni prescritti, vengono fatti i nomi taciuti nella prima: dettaglio non marginale.
Forti disegna la vicenda del rapporto fra le autorità fasciste, la cittadinanza “ariana” e i cittadini ebrei
Pardo Roques era il presidente e la personalità più in vista, per cultura e ricchezza, della comunità ebraica pisana, e anche fuori di essa aveva una gran reputazione di benefattore. “Somigliava a Pirandello – dice un testimone, allora ragazzo – pelato, con la barbetta”. Era stato assessore e prosindaco nell’Italia giolittiana, presidente della Croce Rossa nella Prima guerra. Prima del ’38 in quel San Rossore era ricevuto dai reali, era ritratto in fotografia accanto al duce e al re. Aveva 68 anni quando Pisa, falcidiata dai bombardamenti, dal 23 luglio al 2 settembre 1944 fu divisa in due dal fronte.
La mattina del 1° agosto 1944, una banda di militari tedeschi agli ordini di un ufficiale fece irruzione nella sua abitazione. Vi si trovavano sei amici ebrei, suoi ospiti, e cinque cristiani, tre donne di casa, una donna del vicinato, un artigiano venuto ad attingere l’acqua. Sono tutti e dodici seviziati e trucidati. I nazisti si attardano per ore ubriachi, saccheggiano la dimora-museo, caricano per più viaggi un loro furgone, si esibiscono in strada. Subito dopo la liberazione, verrà arrestato un affittuario di Roques, fascista tesserato, che aveva avuto screzi con lui per interessi materiali e l’aveva trattato con un’ordinaria arroganza al riparo del razzismo ufficiale. I vicini testimoniano che avrebbe indicato ai militari nazisti la casa dell’ebreo ricco – il “capitalista di Palestina” – che cercano. Nel 1946 la Corte d’Assise di Firenze lo assolve per insufficienza di prove. Soluzione cui Carla Forti si adegua: “La corte non avrebbe potuto condannare… Si possono avanzare riserve sul modo in cui la sentenza venne motivata e su tutto l’iter giudiziario che la precedette, non sulla sentenza in sé”. Forti disegna, attraverso la ricostruzione scrupolosa del processo e delle diverse testimonianze, la vicenda delicata e complessa del rapporto fra le autorità fasciste, la cittadinanza “ariana” e i cittadini ebrei, divisi a loro volta religiosamente, socialmente e politicamente, con una parte ingente allineata, convintamente o blandamente, col regime, fino al tradimento delle leggi razziste. Per scrivere il libro, a distanza di alcuni decenni dal fatto, Forti aveva potuto rintracciare molti testimoni viventi, e ne era uscita con una domanda inquieta: “Ci si può chiedere perché oggi queste persone parlino, dopo mezzo secolo di mormorii; e perché altre continuino a non parlare”.
Roques, solo lui, non era fuggito da Pisa, a differenza dei suoi correligionari, alcuni dei quali erano stati deportati
Pardo Roques, solo lui, non era fuggito dalla città, a differenza dei suoi correligionari, alcuni dei quali erano stati deportati, come lo stesso rabbino di Pisa Hasdà e sua moglie, assassinati ad Auschwitz. Eppure era il più informato e il più consapevole della piega tragica che aveva preso la persecuzione. Pensava forse di essere protetto dal credito accumulato con la sua larghezza presso le autorità cittadine. Non risulta che avesse a che fare con ambienti antifascisti, nemmeno negli ultimi tempi. Al contrario, aveva contribuito largamente al Fascio locale, e “fino alla fine sia il federale sia il segretario rionale ebbero per lui, a dispetto delle leggi razziali, un rispetto che sconfinava nella reverenza”. Per restare aveva comunque una ragione intima, una fobia patologica per i cani e i gatti, e se ne riparava nella sicurezza sorvegliata delle mura domestiche. Questa stranezza, nota a tutti, dava alla figura solenne di Pardo un’aria speciale, fra il buffo e il penoso. Un ragazzo che lo frequentò e ammirò ne restò così colpito da attribuire la propria successiva illustre carriera di psichiatra al proposito di venirne a capo. Si chiama Silvano Arieti, e colse il suo successo negli Stati Uniti in cui era emigrato, ma alla fine degli anni ’70, dopo un soggiorno a Pisa, pubblicò in America un suo libro attorno al “Parnàs” Roques, di documentazione, intuizioni, e interpretazioni romanzate…
Carla Forti, nata a Verona nel ’38, ha studiato alla Normale ed è restata a Pisa a vivere e insegnare, occupandosi fra l’altro di storia dell’America dopo la scoperta, di Dante, e di argomenti ebraici alla stregua del suo compagno di studi Michele Luzzati. Avevo letto il suo libro all’uscita, quando ebbe una forte risonanza, ben oltre un caso di storia locale, e l’ho riletto ora con la stessa ammirazione. Il quarto di secolo trascorso ha moltiplicato enormemente interessi e ricerche su un tema come l’ebraismo italiano e internazionale che aveva tardato molto a imporsi; e anche quel ritardo è oggetto della riflessione nel libro ripubblicato. Mi pare ora di intravvedere un problema non risolto, probabilmente non risolvibile. Alla fine delle prime due parti, dedicate al “fatto e le fonti”, e alla “scomposizione di un eccidio” – siamo appena alla pag. 75 delle 298 totali – Forti, che sta trattando la vicenda come effettivamente si svolse e il modo in cui fu vissuta allora e in seguito, e non come il giudice che debba emettere una sentenza, enuncia un’ipotesi possibile e subito dopo una conclusione probabile. L’ipotesi, poggiata su più testimonianze concordi, è che l’ufficiale tedesco e i suoi scherani non sapessero dell’identità ebraica di Roques e l’avessero scoperta solo a saccheggio in corso, grazie ai libri e agli oggetti custoditi nella casa-museo, e che fossero arrivati “solo in cerca di un ricco da depredare”. La conclusione: “A voler dare forma verbale chiara e distinta a supposizioni, mezze voci, dubbi, deprecazioni, allusioni, leggende e affabulazioni circolanti in Sant’Andrea /il rione popolare del palazzo Roques e della sinagoga/, bisognerebbe dire che a perdere Pardo fu la sua ricchezza. Quella stessa ricchezza che lo aveva a lungo protetto”.
“Una presenza familiare da sempre, e insieme misteriosa. Tali sono i ricchi molto ricchi per i poveri molto poveri”
Pardo Roques era molto ricco e, per così dire, molto ebreo. Chiedersi se ad attirare addosso a lui e ai suoi infelici ospiti la ferocia dei tedeschi (forse soldati, forse SS) sia stato soprattutto il suo ebraismo o la sua ricchezza può sembrare un esercizio superfluo, o impossibile. Dopotutto, l’ebreo ricco è lo stereotipo, benché la realtà fosse e sia molto più varia. Per credere che i criminali avessero scoperto solo dopo l’irruzione che il padrone di casa era ebreo, bisogna spostare a un intervallo della loro impresa l’interrogazione ai vicini sul “capitalista di Palestina” o sugli altri sinonimi citati dai testi. Il contesto, la città, che a quell’altezza contava circa 400 ebrei in tutto, e il quartiere, dove la famiglia Roques dimorava dalla metà dell’Ottocento, rendevano più distintivo il patrimonio di Pardo, e le sue favolose elargizioni, che l’identità ebraica. “Pardo era in Sant’Andrea una presenza familiare da sempre, e insieme da sempre misteriosa. Tali sono i ricchi molto ricchi per i poveri molto poveri”.
Di chi era Pardo Roques? Del rione di Sant’Andrea, della sua plebe beneficata, degli ottimati che lo riconoscevano uno di loro e dei più spiccati, della comunità ebraica – forse di nessuno. L’eccidio continuò a essere ricordato piuttosto come un fatto di sangue mostruoso e strano. La Pisa popolare e antifascista onorò le vittime di un eccidio di ebrei, ma non lo sentì suo. E forse nemmeno la maggioranza dei suoi correligionari. Nonostante la considerazione reverenziale, non c’era stata familiarità con lui e con le sue fobie, l’aura di chi sente addensarsi la bufera sul proprio capo e sul suo intero mondo. Nella borghesia ebraica si preferiva ricordare che “a Pisa la caccia all’uomo non ci fu”, e a “relegare il male in ambito esclusivamente tedesco”. Avvenimenti come la “Notte dei cristalli” in onore del gerarca pisano Buffarini Guidi il 28 ottobre 1942, nel ventennale della Marcia su Roma, sembravano più vivi nella memoria dei non ebrei. E fino a poco fa non si ricordava il nome di Enrica Calabresi, scienziata illustre, docente a Pisa fino alla cacciata, suicida in cella a Firenze la notte prima della deportazione, il 20 gennaio 1944. Solo nel 2018, a 80 anni dalle leggi razziste, la Sapienza pisana si è fatta promotrice, con tutti i rettori, di una “cerimonia del ricordo e delle scuse” rivolte alle comunità ebraiche per i 448 docenti, i 727 studiosi e i più di mille studenti espulsi dalle università italiane. “Nel ’38 – scriveva Carla Forti raccogliendo le sue testimonianze trent’anni fa, – la discriminazione non costituì agli occhi degli ebrei un fatto così straordinario che essi non pensassero di potervisi adattare riprendendo a pattuire le condizioni della loro permanenza nella società…”. Considerazioni gravi, anche quelle sulla paura che restava dopo la Liberazione: “La paura non era cessata. Se non paura, inquietudine, disagio. Di essere individuati come ebrei, dunque diversi e, in fondo, sospetti. Disagio non poi inspiegabile, per chi pensi alle espressioni usate nella sentenza” del processo per l’eccidio: “cinque ariani”, “la domestica di razza ariana”.
Rievocando la persecuzione subita, non soltanto dai tedeschi, si rischiava di evocare la propria presunta diversità
(Mi successe una volta in Polonia, alla fine degli anni ’70, un episodio memorabile. Visitavo, con altre due persone, una residenza statale per anziani ebrei, e fummo invitati a cena. Sorbivamo la nostra minestra quando uno degli anziani commensali mi chiese: “Tu sei ebreo, vero?”. Gli risposi di no. Ci fu un silenzio, poi, senza alzare la testa dal piatto, lui concluse: “Fai bene a dire così”).
“Dal disagio – continua Forti – il desiderio di omologazione. Ma l’omologazione richiedeva la rimozione del passato, perché rievocando la persecuzione subita, non soltanto dai tedeschi, si rischiava di evocare la propria presunta diversità. Così, dire ‘tutti ci volevano bene, delle leggi razziali non ci siamo quasi accorti, non c’era antisemitismo’, diventava una formula quasi apotropaica”. A distanza di un quarto di secolo dalla prima uscita del libro, si può misurare il progresso nella documentazione e nel linguaggio. Si può anche chiedersi, fatte salve le differenze e le incomparabilità, se non insegnino qualcosa, quel disagio e quella rimozione, sui sentimenti che attraversano oggi gli immigrati “assimilati”.
Universalismo individualistico