il libro
Lo sguardo cupo di Bunin e l'amara verità del bolscevismo
“Giorni maledetti”, spietato diario dei giorni della rivoluzione bolscevica per la prima volta tradotto in Italia
Avverso come pochi al vertiginoso profetismo della rivoluzione bolscevica, a Ivan Bunin – scrittore autoesiliatosi in Francia dal 1920 e, nel 1933, primo premio Nobel russo – è toccato un destino beffardo: quello di esser stato, in fin dei conti, profetico. Ma è solo un effetto collaterale, non certo una volontà – effetto della sua sconcertante capacità e libertà di osservazione, e delle facoltà cristalline del suo sguardo vigile e panico, lo sguardo che può avere solo un grandissimo scrittore.
“Beati i morti!” è la citazione da Giorni maledetti (Voland, 216 pp., 18 euro) più sintetica e utile a render conto del sentimento che attraversa questo spietato diario dei giorni della rivoluzione: opera tragica per definizione, tragica da premessa, composita al punto da sembrare quasi impressionistica e virtuosamente frammentaria, è di fatto il diario di un’osservazione impotente. E’ la storia di uno sguardo, più che la storia di un paese o dell’inesorabilità del proprio destino. Uno sguardo che incupisce progressivamente e registra la notte che scende, raccontando l’amara verità che si fa strada sotto i colpi che l’autore infligge a se stesso per la semplice ragione che non può rinunciare a essere chi è, cioè uno scrittore, ossia un uomo che ascolta e osserva, un uomo che si arrovella sul linguaggio, che scova il ridicolo e non soccombe al sentito dire e al sentito vivere. Un uomo che racconta lo squallente panorama di manipolazioni logiche e di materiali penurie con uguale irriducibilità e non depone la penna davanti all’orrore anche quando scrivere significa farlo col cuore in gola (“le palpitazioni mi hanno svegliato alle sei, è la follia collettiva”) o alla luce di una lampada di fortuna (“un po’ di olio e un sughero in un barattolo”). Uno sguardo che, in parole di fuoco, non risparmia niente e nessuno. Ed è proprio la qualità di questo sguardo, in un’opera che brilla per lucidità e tensione lirica, la caratteristica che lo rende attualissimo anche per noi, lettori di cent’anni dopo.
Bunin è leale verso se stesso, anche a costo di se stesso. E il bestiario davanti ai nostri occhi è quello di ieri, di oggi, di sempre. Inevitabile, per lo scrittore, guardare con raccapriccio all’arbitrio, alle violenze, alle menzogne, e fare il ritratto, sgomento, a questi “banditori immersi nel sangue fino alle ginocchia” i quali, in una città sprofondata nelle tenebre notturne, sciamano su automobili spericolate. “Marinai con enormi Browning alla cintura, scippatori, efferati criminali, e alcuni elegantoni, tutti coi denti d’oro e gli occhi dilatati dalla cocaina”. Ecco i saccheggi e la distruzione, l’eccitazione, i pogrom, i civili ebrei giustiziati casa per casa. Ma ecco, soprattutto, la bestia umana e la sua vocazione allo sporco lavoro. Ecco i ruffiani che balzano di carro in carro e gli scaltri cantori di ciò che conviene (“tutto verrà dimenticato e addirittura glorificato! E a offrire il proprio aiuto sarà la letteratura, e la razza più pericolosa, quella dei poeti, che accanto a un unico, autentico santo, annovera sempre diecimila impostori, bastardi e ciarlatani”). Ecco gli abbattitori di statue (“passatempo noto”, sbuffa Bunin, mostrandoci come sia il mestiere – per moralisti – più vecchio del mondo). Ecco la malafede che trionfa, ecco la slealtà morale di cui lo spettacolo umano non ha mai smesso di dar repliche, come a teatro.
“La quantità di bugie è tale da togliere il fiato”, annota. E poi, in calce a questo requiem, inchioda una verità: “E tutto, come sempre, per l’insostenibile brama di vedere la realtà coincidere coi propri desideri”.