Molta demagogia, poca arte. Il Tate di Londra è un museo allo sbando
Addio genio. Con la scusa della pandemia il Turner Prize premia il sociale
Immaginate che al torneo di Wimbledon un anno non invitino più i singoli giocatori ma solo il doppio. Non solo. Sono invitati esclusivamente giocatori di doppio misto o gender fluid. Poi come se non bastasse almeno uno dei due giocatori deve venire da zone geografiche economicamente depresse, ecologicamente disastrate e con crisi umanitarie in atto. Ecco fatti i dovuti distinguo culturali è quello che è capitato all’edizione di quest’anno dello storico Turner Prize del museo Tate di Londra. Non è stato selezionato nessun artista individuale ma cinque collettivi di artisti che lavorano nel campo sociale. Già nell’edizione del 2019 i quattro artisti selezionati scrissero una lettera dove chiedevano in nome della solidarietà di dividersi il premio di 40.000 sterline. Tutti vincitori. Quest’anno vedremo se i collettivi scelti opteranno per la stessa solidarietà o accetteranno la scelta della giuria.
Il Turner Prize stabilito nel 1984 fu vinto la prima volta dal pittore Malcolm Morley. Nel 1991 da Anish Kapoor. Nel 1995 fu premiato il diavolo in persona Damien Hirst, che oggi con il vento che tira verrebbe portato al tribunale dell’Aia per crimini contro l’impegno artistico. Nel 2001 fu Martin Creed a far scandalo vincendo con l’opera n. 227 che consisteva in una stanza vuota dove le luci si accendevano e si spegnevano periodicamente. Sarebbe bastato questo a fare imbufalire il visitatore medio che aveva pagato il biglietto. Le polemiche e l’attenzione attorno al Turner Prize sono sempre state la linfa vitale del suo successo ma forse lo spostamento del baricentro da quello che, pur con tutte le variazioni del caso e dei tempi, è considerato arte ad attività più vicine alle scienze sociali, all’ecologia, alla musica, alla psichiatria e all’alimentazione, potrebbe condurre il prestigioso premio alla sua estinzione, dando una scossa tellurica alla funzione di quella istituzione culturale chiamata comunemente, per mancanza di un termine più chiaro, museo.
Le ragioni di una scelta così radicale da parte del comitato selezionatore è attribuita, come il 99 per cento di tutte le decisioni prese negli ultimi 20 mesi, alla pandemia, che in questo caso ha impedito ad artisti individuali di avere mostre personali, criterio base per essere candidati alla corsa per il premio. I cinque collettivi hanno invece in un modo o nell’altro continuato a portare avanti la loro attività. Come se un artista chiuso all’interno del proprio studio non avesse potuto continuare a creare. Proprio l’innominabile Damien Hirst, bloccato nel suo studio sul Tamigi, ha prodotto nell’ultimo anno una serie di opere fra le più spontanee e interessanti della sua produzione recente. Ma per capire l’estremismo della scelta è necessario dare un rapido sguardo ai cinque gruppi scelti.
Cooking Sections, due artisti, Daniel Fernández Pascual e Alon Schwabeche, vivono a Londra, s’interessano alla geopolitica e all’ecologia attraverso il cibo. In un loro un recente progetto proprio alla Tate Modern hanno denunciato le condizioni “dispesciane” dei salmoni da allevamento costringendo per amor di coerenza il ristorante del museo a togliere dal menù il gettonato pesciolino. Array Collective, di base a Belfast nell’Irlanda del Nord, ha fatto un progetto dedicato alla depenalizzazione dell’aborto nel proprio paese. Gentle/Radical, forse il gruppo più “artistico” di tutti gli altri, lavora in Galles con le comunità locali usando l’arte per produrre cambiamenti sociali.
B.O.S.S., al secolo Black Obsidian Sound System, che lavora a Londra, è formato da diciotto persone che s’interessano della costruzione e dello sviluppo di sistemi sonori e organizza eventi musicali. Infine il più complesso e bizzarro dei candidati al Turner Prize si chiama semplicemente Project Art Works e consiste in un gruppo di artisti “neurodiversi”, termine coniato dalla sociologa Judy Singer nel 1998, che abbraccia un vasto numero di persone con attitudini e problematiche diverse compreso l’autismo, Van Gogh avrebbe potuto molto probabilmente essere incluso fra di loro. Il collettivo crea e promuove progetti artistici fatti da e per neurominoranze.
Aldilà di qualsiasi frettoloso giudizio e valutazione culturale ed artistica di questi gruppi, il dubbio che il mondo dei musei e la produzione artistica contemporanea, già messa in crisi dagli incomprensibili ma spudoratamente commerciali NFT, stia entrando nel migliore dei casi dentro una rivoluzione eccezionale dei propri linguaggi e nel peggiore scenario in uno stato confusionale estremo forse irreversibile, c’è. Che l’arte esca dai musei è sempre stato un bene come altrettanto salutare è il fatto che il mondo entri con i suoi problemi e tutte le sue minoranze (anche gli islandesi sono una minoranza) dentro al museo.
Pericoloso e poco rispettoso è il fatto che attività importanti e fondamentali come sociologia, ecologia, psichiatria e impegno umanitario che richiedono impegno e studi lunghi e profondi vengano prese in prestito da persone che molto probabilmente non sono in grado né di essere artisti né di essere veri attivisti, scienziati o antropologi, ma che tuttavia usano come cavallo di Troia l’insicurezza e i sensi di colpa del mondo dei musei e dell’arte contemporanea per entrare là dove non sarebbero mai potuti entrare se non come semplici visitatori.
Ben venga la fine dell’artista genio indiscusso e il vaccino contro la sindrome di Picasso, a patto che l’esperienza collettiva artistica non si trasformi in un arrogante abuso dello spettatore comune, ignaro che oltre la soglia del museo troverà non dipinti, sculture, performance o video, ma una sala d’aspetto di un centro di medicina mentale, una sede del movimento animalista o un campo di accoglienza profughi. Luoghi fondamentali di una società civile ma ben più efficaci se utilizzati per quello che sono e non camuffati da demagogiche opere d’arte. Questa idea di museo allo sbando, distratto e confuso da quello che non è più ma incapace di comprendere quello che sarà, potrebbe generare il ritorno letale di una delle tante varianti del virus del “boterismo”, sempre in agguato laddove la vera arte ceda alla propria timidezza e alla paura di essere inefficace e inutile.