Rea e Zanzotto, paradigmi della letteratura egemone dopo il boom
Occorre sempre un'Itaca a cui tornare, sia per essere provinciali e nazionalpopolari (con nobile furberia) che per sperimentare altri mondi. Due centenari agli antipodi tra Sicilia e Veneto
Non saranno in molti, nei prossimi mesi, a ricordare il centenario della nascita di Domenico Rea (1921-1994); e le ragioni dell’oblio sono inscritte nella parabola della sua fortuna novecentesca. Questo narratore autodidatta esordì nell’immediato Dopoguerra, quando la letteratura era affamata di realtà, e a volte la confondeva con il pittoresco. Ma se Rea fu favorito da quel clima, la sua opera non è riducibile alla retorica neorealista. Le novelle di Spaccanapoli (1947) e di Gesù, fate luce (1950) evocano piuttosto l’eredità boccaccesca, tradotta in quella che Pasolini definì una “sveltita e furbesca prosa d’arte”.
Con il suo italiano sghembo, approssimato, infarcito di reminiscenze colte e brani dialettali, Rea trasformò faulknerianamente la sua Nocera in Nofi, dipingendo un mondo di bassi fetidi, plebi sguaiate, sconcezze e delitti. Spesso, in un bozzetto di poche pagine, una sceneggiata grottesca finisce in tragedia: si veda ad esempio nel Gesù la storia di Cappuccia, ergastolano che ha fatto del carcere la sua vera casa, e che nel settembre del ’43, dopo che le guardie hanno abbandonato l’edificio, si prepara un pranzo da re nelle cucine, per affrontare poi una pattuglia di soldati con la caccavella in testa.
A metà anni 50, quando la Ortese lo ritrae gelido e guardingo sotto la recita da sbruffone, Rea è considerato uno scrittore di primo piano. Perfino l’antipode Calvino loda i suoi racconti “tough”. Ma all’altezza di Una vampata di rossore, il romanzo del ’59 in cui tenta di piegare le sue doti di velocista alla misura lunga, la situazione è già cambiata. Quella che Raffaello Brignetti, proprio citando il nocerino, aveva stigmatizzato come “letteratura Ohi Peppì”, comincia a suscitare una certa insofferenza. L’Italia è in pieno boom, e il dibattito si concentra su industria e alienazione. Anche per motivi privati, Rea presto si ritira nell’ombra, dove rimane fino a Ninfa plebea (1992). La cultura nazionalpopolare che lo sosteneva ha resistito appena un decennio: quella che sembrava un’alba neoumanistica era il tramonto definitivo dell’Ottocento.
I termini si possono ribaltare per Andrea Zanzotto (1921-2011), di cui invece gli studiosi stanno celebrando il centenario con un trasporto quasi religioso. Difficile immaginare un autore più lontano da Rea. Con i suoi ottimi studi regolari, Zanzotto rappresenta l’intelligenza sofisticata del secondo Novecento, che alla narrazione istintiva oppone lo sperimentalismo lirico e teorico. Mentre Gesù, fate luce andava in ristampa, il poeta trevigiano pubblicava in Dietro il paesaggio versi come questi: “Dagli stemmi sbiaditi di settembre / escono vaghi animali / a scegliere liquida uva / e un roseo sonno / li assottiglia tra spine”. Siamo davanti a un ermetismo tenue, epigonale. Ma passano undici anni, e in IX Ecloghe il vecchio gergo poetico è già distrutto: “L’anancasma che si chiama vita: / macchie, macchine, muscoli, ceneri, / spasmi, fu il corso di quella partita / in cui perdesti te stesso e il tuo stesso perderti”. La stagione decostruttiva di Zanzotto culmina nel ’68 in La Beltà, dove si trova la celebre poesia “Al mondo”: “Mondo, sii, e buono; / esisti buonamente (…) Fa’ di (ex-de-ob etc.) -sistere / e oltre tutte le preposizioni note e ignote, / abbi qualche chance, / fa’ buonamente un po’; / il congegno abbia gioco. / Su, bello, su. // Su, münchhausen”.
Il poeta allude al leggendario barone che prova a uscire dallo stagno tirandosi su per il codino, ed esprime così l’impossibilità di cambiare la vita facendo leva su una realtà “altra”. Questo Zanzotto è l’ultimo petrarchista alle prese con il paesaggio dell’industrializzazione, cioè con uno sviluppo materiale e linguistico canceroso e incontrollabile. Nella sua opera la tradizione classica e romantico-simbolista appare infestata da un compulsivo accumulo di bisticci fonici e associazioni mentali incongrue. Oscillando tra verbosità e afasia, i suoi versi mischiano l’idillio pastorale e i discorsi sul significante, il balbettio infantile e il lessico di Lacan.
Forse un giorno liquideremo Zanzotto come un Carducci postmoderno; ma oggi giganteggia nel canone, perché soddisfa sia il nostro culturalismo sia la nostra nostalgia per le civiltà scomparse. In effetti alcune delle sue pagine migliori sono dialettali, e senza il tranquillo radicamento nel suo Veneto non si spiega la sua vertigine sperimentalista. A differenza di Celan o Rosselli, dopo le sortite formali più oltranziste Zanzotto ha una patria a cui tornare: a riprova del fatto che gli scrittori italiani di quella generazione sono incomprensibili senza lo sfondo di una provincia, si tratti di Nocera o Pieve di Soligo.
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