Lezioni per oggi
Censure furiose
Il fascismo decise di vietare “Scarface” perché oltraggiava l’onore patrio, e non perché offendeva gli immigrati italiani
Nella famosa intervista a David Chase, il creatore della serie televisiva The Sopranos, Peter Bogdanovic parla delle origini di Scarface (1932), il classico film gangster su Al Capone diretto da Howard Hawks. L’iniziativa di fare quel film non era di Hawks, racconta Bogdanovic, ma dello sceneggiatore Ben Hecht (uno di quelli rappresentanti nel recente Mank). Con un passato da reporter d’assalto e un presente da stimatissimo sceneggiatore di storie torbide, Hecht aveva contattato Hawks cercando di convincerlo a collaborare al film. “Un altro gangster?”, Hawks gli avrebbe risposto seccato, “ma ne sono già stati fatti tanti!”. “Sì, ma questo è diverso. Ci ho messo anche i Borgia!”, avrebbe ribattuto Hecht.
Nei manuali di storia del cinema, Scarface è ritenuto insieme a Little Caesar (1931) uno dei più riusciti film gangster dei primi anni Trenta. In Italia la cosa si è capita più tardi visto che entrambi i film, banditi durante il fascismo come oltraggiosi per l’onore patrio, arrivarono solo nel Dopoguerra, con tagli e doppiaggi creativi splendidamente raccontati nelle ricerche di Carla Mereu Keating. Negli stessi manuali Scarface viene spesso descritto come vittima delle confuse pratiche censorie dei primi anni Trenta, quando Hollywood doveva confrontarsi con vari comitati di censura statali, dalle pretese più diverse, ma accumunati dal timore per un film ritenuto troppo indulgente con il crimine. La storia della ricezione di Scarface interseca anche il fascismo e, precisamente, quegli organi di politica culturale internazionale che erano l’ambasciata italiana e i vari consolati. I documenti d’archivio mostrano come queste istituzioni, costantemente in dialogo sia con le associazioni e la stampa italo americana che con il ministero degli Esteri, fossero più preoccupate per l’onore dell’Italia che per quello degli immigrati. Le ragioni erano diverse, legate alla stessa storia della censura, alla politica culturale fascista e persino all’estrazione sociale del personale diplomatico.
Partiamo dalla censura. Non si potevano ovviamente preparare versioni diverse dello stesso film a secondo dello Stato in cui la pellicola era distribuita. Per aggirare l’ostacolo la soluzione era quella dell’autoregolamentazione centralizzata, facente perno sulla Mppda, la potente associazione americana dei produttori e distributori cinematografici. Dal 1922 Hollywood e Washington avevano cominciato a collaborare. A dirigere la Mppda arrivò una figura governativa, Will H. Hays, al tempo direttore generale delle Poste (una posizione cruciale in tempi in cui l’opinione pubblica si manipolava con la stampa) e già promotore delle campagne elettorali repubblicane. Dalla fine degli anni Venti, il suo ruolo divenne la compilazione e l’approvazione effettiva del codice di autocensura cinematografica. A uso di produttori e distributori, il cosiddetto Codice Hays stabiliva cosa non si potesse filmare in relazione a scene di violenza, crimine, sesso, adulterio, religione, rapporti fra individui di razze diverse e traffico di droga. Già dal 1927, in un primo elenco di questi comandamenti, erano proibite le rappresentazioni che facevano leva su pregiudizi negativi di personaggi di altre nazioni. Il principio era semplice. Meno si offendevano i rappresentanti di altri paesi, meglio si manteneva il consenso interno e meglio si potevano negoziare vantaggiosi patti distributivi internazionali. Le autorità diplomatiche italiane, come vedremo, si dimostrarono molto sensibili su questo punto.
Le trame di più grande popolarità, tuttavia, non sempre ubbidivano ai disegni distributivi e geopolitici dell’industria del cinema. Il filone dei film sulla criminalità organizzata, già presente fin dall’inizio del secolo, era divenuto negli anni Venti uno dei più seguiti. Fondamentale nella sua popolarizzazione erano stati i reportage giornalistici, sensazionalistici e non sempre accurati, sulle bande criminali che in pieno proibizionismo si erano rafforzate grazie al traffico illegale degli alcolici. Per le classi inferiori, dai tratti ancora molto etnici, le élites politiche e morali del paese avevano abusato del loro potere. Con la Grande Depressione, avevano fatto di peggio. Da anni non solo la gente comune non poteva più consumare alcolici legalmente e a costi ragionevoli, ma ora si ritrovava senza lavoro. Era quello il sogno americano? Vedere sul grande schermo le imprese di figli di immigrati che se ne infischiavano delle leggi e che si arricchivano impunemente (almeno fino alla fine del film) era eccitante. Soprattutto perché le storie consentivano l’identificazione con un universo criminale irriverente. L’introduzione del codice di censura nel 1930 e la sua applicazione nel 1934 misero fine anche a quel diversivo.
Anche se al cinema si vedevano parecchi criminali che non erano italiani, come nel famoso Public Enemy (1931), le storie di gangster italiani aggiungevano una dimensione di primitivo esotismo legato all’accento, al temperamento vulcanico e alle crudeltà inaudite dei protagonisti. D’altra parte, erano decenni che i giornali americani raccontavano storie di brigantaggio meridionale e di violenti regolamenti di conti fra bande criminali italiane. Se poi aggiungiamo il diffuso pregiudizio xenofobo, che leggeva la diversità degli immigrati come perversione, possiamo capire perché Hecht potesse pensare ai Borgia mentre disegnava il protagonista del film come morbosamente legato alla sorella.
Sottotitolato The Shame of A Nation (talvolta anche come The Shame of the Nation) e adattato dall’omonimo romanzo del 1929 di Armitage Trail, che lo scrisse dopo aver socializzato lungamente con i membri della comunità siciliana di Chicago, il film esce il 9 aprile 1932. Le reazioni negative a stampa furono immediate e numerose, e arrivarono regolarmente sui tavoli dei consoli. Chi scrive riesce a citarle perché l’ambasciata ne ricevette copia (tramite i consolati) e li trasmise alla Farnesina presso i cui archivi sono attualmente conservati.
Il 22 aprile, il giornale della comunità italiana del Rhode Island, stampato in versione inglese come The Italian Echo e in italiano come L’Eco del Rhode Island, pubblica due editoriali polemici, “The Underworld Films” e “Il film reca offesa alla razza italiana.” I due contributi presentano la stessa motivazione. Il film dipinge la criminalità di Capone come importata (sostenendo quindi l’urgenza delle deportazioni) e lo rappresenta assurdamente come incapace di parlare un inglese corretto e senza accento italiano nonostante fosse nato a Brooklyn. In questi interventi si annuncia l’invio di una lettera di protesta “indirizzata ad Hays per certi caratteri [anglicismo per “personaggi”] e l’ambiente tipicamente italiani”. Il 26 aprile il Console di Boston (con giurisdizione sul Rhode Island) spedisce subito gli editoriali, con un suo commento, all’ambasciatore italiano Giacomo De Martino.
Da metà aprile e per mesi a seguire, l’ambasciata riceve dai consoli di Baltimora, New York, New Orleans, Seattle e San Francisco resoconti dettagliati di comunicazioni provenienti dalle associazioni locali più diverse, dalla stampa italoamericana e da privati. Le prime includono gli italoamericani di Providence, l’American-Italian Progressive Club di San Mateo (California), la Loggia Giuseppe Mazzini di Portland e varie sezioni dell’Ordine dei Figli d’Italia. Fra i giornali di più ampia circolazione si segnalano L’Opinione di Filadelfia e Il Progresso Italo Americano di New York, ma le testate erano dozzine. I privati non si contano.
Hollywood non rimane a guardare. La Mppda risponde alle critiche attraverso i canali che conosce meglio, quelli diplomatici. Lo fa già il 2 maggio, tre settimane dopo l’uscita del film. Frederick L. Herron, manager del dipartimento Esteri dell’associazione, scrive all’ambasciatore italiano scusandosi per le scelte del produttore. Il 7 maggio Martino fa avere la lettera al ministro degli Esteri, Dino Grandi (subentrato a Mussolini nel 1929): Hollywood che chiede scusa all’Italia è una notizia diplomatica. Dieci giorni dopo, in un’altra comunicazione al ministro, Martino riassume compiaciuto come la mobilitazione della comunità del Rhode Island rappresenti “la spontanea reazione provocata dalla rappresentazione di Scarface che rispecchia la crescente sensibilità delle nostre comunità degli Stati Uniti, per tutto quello che possa comunque avere carattere di offesa o di minore considerazione verso la Patria di origine e verso la massa italo-americana.” L’espressione “massa italo americana” è significativa nella sua patrizia altezzosità. Ma non dovremmo sorprenderci. Di estrazione nobile il sessantaquattrenne De Martino era stato precocissimo capo di gabinetto al ministero degli Esteri, segretario generale della delegazione italiana alla Conferenza di Pace di Versailles del 1919 e già ambasciatore a Berlino, Londra e Tokyo. Non poteva condividere il dramma delle comunità degli immigrati italiani e, anche se si mostrò interessato alle loro reazioni, ne prese nota solo in quanto intercettavano le politiche diplomatiche.
Se gli immigrati e i consoli scrivevano, infatti, l’ambasciatore archiviava, annotava le loro reazioni e le comunicava al ministero solo quando in gioco c’era la reputazione dell’Italia e delle sue istituzioni (più che quella degli italiani d’America). Si può ipotizzare che le informative diplomatiche e i ritagli di giornali insegnassero molto all’ambasciatore riguardo agli argomenti da usare nelle comunicazioni con l’Mppda.
A fine maggio il settimanale di lingua italiana dello Stato di New York, L’Azione, pubblica una recensione assai eloquente su Scarface. L’autore parla di “cieco e ridicolo pregiudizio di razza”, protestando che Capone “d’Italiano non ha che il nome; americani sono invece i suoi costumi… la sua educazione… i suoi sistemi per truffare… i suoi sentimenti”. L’editoriale dello stesso giornale (“Un vecchio ed odioso sistema”) rincara la dose. Distingue sciovinisticamente Italia e Stati Uniti riguardo alla missione della stampa (“I giornali italiani, meno ricchi, meno voluminosi, ma più dignitosi dei ‘quotidiani americani’, non avrebbero regalato a Scarface quintali di carta”) e, soprattutto, in termini di giustizia fascista (“invece di diventare un ‘Re’ Scarface sarebbe stato già da molto e molto tempo un ospite del reclusiorio!”).
Sul tavolo dell’ambasciatore arrivano copie di lettere di protesta che privati cittadini, desiderosi di mettersi in luce, spedivano a giornali e a riviste. Una missiva, datata 24 giugno 1932 e firmata da un certo Guido Negri di Atlanta, è indirizzata alla direzione della popolare rivista Literary Digest. Negri non chiede o minaccia nulla; invita invece la rivista a considerare quanto dannosa per gli italiani d’America fosse la popolarità del protagonista del film, un gangster, violento e codardo, che prova “sentimenti satanici” per la sorella. Nella lettera è il confronto con l’Italia di Mussolini che probabilmente intriga i diplomatici italiani. Negri fa notare che il tipo di criminalità rappresentata nel film non sopravviverebbe in Italia perché, se i governi liberali avevano fallito nella lotta contro la “Maffia”, il fascismo l’aveva sconfitta in pochissimi anni.
Due mesi dopo l’uscita del film, l’ambasciata traduce le proprie riflessioni nella circolare n. 5027-B36. Datata 13 luglio e dedicata a “L’Italia nel cinema americano”, la circolare designa le forme della “necessaria reazione alla calunniosa campagna contro l’Italia fatta a mezzo di film americane”. Chi scrive non ha potuto leggere la circolare, ma una comunicazione spedita lo stesso giorno al console di San Francisco ne chiarisce i due piani di azione fondamentali. Da un lato l’ambasciatore riconosce “la spontanea collaborazione dell’associazione dei producers”; dall’altro registra “le reazioni dell’elemento italo-americano”. Sono piani separati, non intersecanti. L’ambasciatore così ne precisa l’uso: “Se per il primo di tali elementi vale l’azione dell’ambasciata, per il secondo spetta ai RR. Consoli di svolgere un’azione attenta e costante d’incitamento nell’elemento italo-americano, appoggiando i volenterosi e spronando gli indifferenti”. Come dire: l’ambasciata, che ha contatti diretti con il governo italiano e con l’industria cinematografica, deve tenersi separata dalle iniziative locali degli immigrati. Scarface, come altri film del genere, fa parte di una campagna calunniosa innanzitutto contro l’Italia fascista. Esprimersi in comunicazioni dirette e quindi riservate con i leader hollywoodiani era una cosa; farlo pubblicamente a nome degli immigrati non rientrava nell’orizzonte d’azione della più importante istituzione fascista in America.
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