C'era una volta la crudeltà
E Cenerentola diventò un'assassina. il lato oscuro delle favole
Da Peter Pan a Biancaneve fino a Hänsel e Gretel. Quelle storie tradizionali che senza etica né moralismo raccontavano la fantasia dei buoni contro i cattivi. Ma c’era chi sapeva ascoltare
C’era una volta un mondo né peggiore né migliore ma diverso da questo, dove l’esattoria dell’etica – o del moralismo – non imponeva dazio alle fantasie. Sicché i bambini, una generazione dopo l’altra, si svezzarono grazie alla crudeltà delle matrigne e alla malizia delle streghe, al cannibalismo degli orchi e alla voracità dei lupi. Fanciulli (così li chiamavano) che parimenti appresero la spietatezza dei giusti e l’involontaria vendetta dei grulli, o quell’astuzia che può far diventare tutti re e regine – finanche i reietti – persino attraverso l’inganno, lecito sempre se favorisce l’eroina o l’eroe contro i malvagi. C’erano una volta le fiabe. C’era una volta chi sapeva raccontarle suscitando alla centesima ripetizione le intense, medesime emozioni della prima narrazione, e c’era chi chiedeva di ascoltarle pretendendo per la centesima sera la stessa storia piuttosto che una nuova. Come un disco che non si consumava mai e che chi imparava a memoria avrebbe un giorno, divenuto grande, fatto girare lui per la gioia di chi fosse arrivato dopo.
C’era una volta.
“C’era? Non c’è?”: Wendy Darling si dovrebbe inserire a questo punto (“con il fiato sospeso”). E Peter Pan risponderle come recita il copione: “Oh, no. I bambini sanno talmente tante cose adesso. Non ci mettono molto a non credere più alle fate, e ogni volta che un bambino dice: ‘Non credo alle fate,’ da qualche parte una fata muore” (e però mentre parla saltella in giro strafottente, “He skips about heartlessly”). Questo Peter e Wendy si dissero la prima volta nel Duke of York’s Theatre alla fine del 1904 ma figuriamoci adesso, nel 2021, che si direbbero. Perché oggi quante cose in più sanno i bambini e quante fate in meno svolazzando vanno. E chi è più Wendy. Chi Peter Pan. Ridisegnato da Disney; diffamato con quella sindrome di infantilismo che coniò lo psicologo americano Dan Kiley; rielaborato da Michael Jackson nella propria disperatissima ricchezza; riproposto al cinema con Neverland nella tragicità biografica del suo inventore James M. Barrie; rivisitato con Hook nella melodrammatica morale di Spielberg dagli effetti speciali.
Magari i bambini adesso se le reinventano su TikTok nuove fate Campanellino, purché non chiamino più “pellerossa” la tribù di Giglio Tigrato e rivedano, oltre al proprio, il suo inglese sicché non paia denigratorio di una minoranza etnica il rudimentale eloquio con cui Barrie diede favella alla piccola indiana. Nella sempre più imbarazzata somministrazione delle fiabe, persino l’edulcorata versione disneyana di Biancaneve ha appena suscitato una polemica spropositata per il “bacio senza consenso”, in un parco a tema californiano, con cui il principe la risveglia dal sonno della morte. (Scorrettezza che lei, potesse dire la sua, probabilmente approverebbe al pari di molti defunti assai meno fortunati).
Ma lo scritto originario della fiaba, redatto da Jacob e Wilhelm Grimm, resta assai più inquietante come inquietanti sono, con gli occhiali del letteralismo o del moralismo, i personaggi maschili e femminili della tradizione favolistica sotto ogni latitudine e ogni tempo. Accade nel testo dei due fratelli tedeschi che il principe rilevi dai sette nani il corpo incorrotto di Biancaneve nella bara di cristallo perché dice di non poter vivere senza vederla: “Voglio onorarla ed esaltarla come la cosa che mi è più cara al mondo”. Una passione che se fosse cronaca e non fiaba saprebbe di necrofilia, ricordando l’insania del colonnello dei servizi argentini, Moori Koenig, per le spoglie imbalsamate di Eva Peron. Nessun bacio, ma uno scossone della cassa portata a spalla dai servi del principe fa sputare a Biancaneve il pezzo di mela avvelenata che aveva trangugiato. “E poco dopo ella aprì gli occhi, sollevò il coperchio e si rizzò nella bara: era tornata in vita”. Alla fastosa celebrazione delle nozze parteciperà anche la perfida matrigna ma sarà atrocemente giustiziata, perché le fanno calzare pantofole di ferro arroventato e la costringono a ballare “finché cade a terra, morta”.
L’amministrazione della giustizia nelle fiabe (e nei miti) può apparire efferata a chi ne soppesi gli elementi spirituali e l’efficacia simbolica sulla bilancia del diritto convenzionale. Non sembra affatto crudele ai bambini e pessima è la tentazione di spurgare le storie dalle immagini cruente. Questa è consolidata convinzione anche tra gli psicologi: “Il bambino sente che tutto va bene nel mondo, e che può essere sicuro in esso, soltanto se alla fine i malvagi vengono puniti” osserva Bruno Bettelheim nel celebre saggio Il mondo incantato. I genitori neppure dovrebbero spiegare il senso celato nelle narrazioni: “Per il bambino il valore di una fiaba è distrutto se qualcuno gliene chiarisce dettagliatamente il significato”.
Fare il vaccino all’immaginazione la deforma o la distrugge e ne corrompe gli intenti. Si lasci incrudelire com’è stato nei secoli dei secoli: la versione russa di Biancaneve, raccolta da Aleksandr Afanas’ev nell’Ottocento sotto il titolo Lo specchietto magico individua, oltre alla matrigna, altri tre colpevoli: una vecchia sicaria che uccise la ragazza con un capello avvelenato intrecciato ai suoi, uno zio e un generale che avevano tentato di stuprarla. La seguente è la fine che fanno: la vecchia e lo zio fucilati in cortile; il generale spedito ai lavori forzati; dulcis in fundo la matrigna, legata alla coda di un cavallo “che fu lanciato a correre in aperta campagna e sparpagliò le sue ossa per cespugli e arbusti”.
Crudeltà per crudeltà, anche se non è sempre restituita. Talora la sorte della matrigna o madre assassina è sottaciuta, come se la storia preferisse delegarla a chi ascolta (o a chi racconta): nella versione abruzzese di Biancaneve lei si rifugia non dai sette nani, ma in un covo di dodici briganti dove sua mamma manda ad ammazzarla una vecchia che le conficca con l’inganno uno spillone nel cranio. I briganti, di cuore peloso ma friabile, inumano la ragazza all’impiedi nel tronco di un albero in cui la troverà il figlio del re. Ça va sans dire che s’innamora: “Se tu fossi viva, ti sposerei, ma anche morta non posso staccarmi da te”. E se la porta a palazzo dove la contempla tutto il giorno. E’ un parrucchiere chiamato a pettinare la salma, dopo aver rotto “sette pettini” sulla capocchia dello spillone, a estrarglielo dalla testa: “Tirò piano piano, e man mano che tirava lo spillone, la giovane ripigliava i colori, e aperse gli occhi, sospirò, respirò, disse: Oh! e s’alzò in piedi”. Sulla cerimonia di nozze, e l’eventuale punizione della madre, i favolisti abruzzesi non fornirono dettagli.
Scivola laconica, ma severa sul destino della matrigna egoista, la fiaba di Hänsel e Gretel, in cui la donna suggerisce al marito di abbandonare i due bambini nel bosco perché a casa non c’è abbastanza da mangiare. Scampati alle fauci di una cattiva strega che voleva cucinarseli, grazie alla prontezza di Gretel che la sospinge nel forno dove “dovette miseramente bruciare”, i fratellini riuscirono a ritrovare la strada di casa. E qui furono abbracciati dal padre, il quale “non aveva più avuto un’ora lieta da quando aveva lasciato i bambini nel bosco. Ma la donna era morta” (et hoc sufficit). Tralasciati senza menzione finale, poiché dabbenaggine e debolezza non costituiscono dolo, la mamma e il padre di Raperonzolo che per un misero furto di rape (o ciuffi di prezzemolo nella variante napoletana) vengono costretti a cedere la figlia alla maga proprietaria dell’orto. Cresciuta e fuggita dalla prigionia, fortunosamente ritrovato il suo principe dopo varie peripezie, la ragazza vivrà ancora a lungo felice e contenta senza più darsi cura della sorte dei genitori. Dimenticati da lei e dal lettore quali meri inneschi di un’avventura biografica, che si dissolsero nell’avviarne il destino.
Il controverso sentimento che allaccia tra odio e amore madri e figli, o matrigne e figliastre, scorre lungo un percorso a doppio senso. Più famosa di tutte, con una radice arcaica che attraversa millenni e geografie, dalla Cina all’Egitto all’Europa, la storia di Cenerentola campeggia tra le fiabe dissimulata spesso sotto una veste di accomodata convenienza. Quella della ragazza buona e vessata, mansueta e leggiadra, che l’amore di un principe riscatta finalmente dalle pene domestiche. E’ il trionfo della versione secentesca e cortigiana di Charles Perrault ripresa nel cartone di Walt Disney, che nasconde le origini più fosche della fiaba. Furono raccontate nel napoletano Lo Cunto de li cunti di Giambattista Basile sotto il titolo La Gatta Cenerentola (cui s’ispireranno l’opera musicale di Roberto De Simone nel 1977 e un film d’animazione diretto da Alessandro Rak nel 2017).
“Origini più fosche della fiaba? E voi che avreste fatto al posto mio?” insorgerebbe qui la Gatta Cenerentola: “Ma cosa ne sapete di quella femmina malvagia e indiavolata che si sposò mio padre quando rimase vedovo? Che ne capite delle sue cere brusche, delle facce storte e di certe occhiatacce losche che mi mettevano tanto spavento da farmi barcollare?”. E Cenerentola insorse anche allora, non con le mosse clamorose di una tigre ma con gli obliqui sotterfugi dei gatti. S’andava a lamentare dalla sua brava maestra di ricamo come un disco rotto. Lamenta oggi e lamenta domani, la donna alla fine le diede un consiglio risolutivo: “Appena tuo padre esce di casa, di’ alla tua matrigna che vuoi un vestito di quelli vecchi che sono dentro alla cassapanca grande del ripostiglio, per risparmiare quello che porti addosso. Lei, che ti vuol vedere tutta pezze e stracci, aprirà il cassone e dirà: ‘Mantieni il coperchio’. E tu, tenendolo mentre andrà cercando all’interno, lascialo cadere di colpo, così si romperà il collo”. Cenerentola solerte esegue e diventa assassina. E la maestra di ricamo che fa? Diventa la nuova moglie del padre, ignaro e ignavo. E’ lei, in questa duplicazione di matrigne nella fiaba di Basile, che vesserà la ragazza già sua allieva e poi complice, lei quella da cui cominciano le storie dei Grimm e di Perrault amputate del colpevole antefatto. E’ lei che porta in casa le sue figlie, che le versioni successive ridurranno alle due sorellastre ma in Basile sono la bellezza di sei, con quei nomi polposi e barocchi coi quali adesso non si battezza quasi più nessuna: Imperia, Calamita, Fiorella, Diamante, Colombina e Pasquarella.
Silente, Cenerentola coltiva accanto al focolare, un tempo l’angolo più caldo e sacro delle case, il risentimento contro la matrigna e la rivalsa sulle sorellastre, lo fa sotto il velo impenetrabile di cenere che riassume il lutto per la mamma morta e per una matrigna uccisa, che ne dissimula la rabbia e la bellezza e le tutela, come fosse vestale, la verginità. Creatura dell’infingimento, medium con l’aldilà, Cenerentola comunica con le fate tramite una magica pianta di dattero nella fiaba di Basile, o direttamente con l’anima della madre nella stesura dei fratelli Grimm, grazie a un alberello di nocciolo piantato sulla sua tomba o sulle ossa di un animale morto nelle varianti fiabesche tramandate in Inghilterra e nei Balcani.
Persino nella solare Cenerentola siciliana, in cui la rivalità con le sorelle è bonaria, dove madre e matrigna mancano e lei non commette misfatti, alla ragazza viene attribuita la facoltà di accedere a realtà incantate – il giardino del “Reuzzo del Portogallo” – scendendo nei pozzi, ossia nelle viscere della Tellus mater, della propria interiorità di iniziata a misteri che le sorelle profane non possono capire. Anche in questa versione le è riconosciuta magica signorìa su una pianta di datteri chiesta in regalo al padre e che dà il titolo alla storia: Gràttula-Beddàttula. (Ricordate il Cantico dei Cantici? “La tua statura è slanciata come una palma e i tuoi seni sembrano grappoli. Ho detto: ‘Salirò sulla palma, coglierò i grappoli di datteri’”).
E’ nel finale della fiaba che si registrano le maggiori differenze. In Perrault al riconoscimento dell’identità di Cenerentola, grazie alla “scarpetta di vetro”, segue assieme alle nozze col principe il perdono delle sorellastre. Lei addirittura le sistema in matrimoni di consolazione “con due gran Signori della corte”, mentre in Basile quelle se ne vanno “quatte quatte”, in preda a invidioso furore ma indenni. Nella fiaba dei Grimm le sorellastre ricevono al contrario una tremenda sorte a opera delle colombe sodali di Cenerentola, che le avevano già denunciate al principe per il maldestro tentativo di truccare la misurazione della scarpetta mutilandosi i piedi: “Quando stavano per essere celebrate le nozze, arrivarono le sorellastre, che volevano ingraziarsi Cenerentola e partecipare alla sua fortuna. E mentre gli sposi andavano in chiesa, la maggiore era a destra, la minore a sinistra di Cenerentola; e le colombe cavarono un occhio a ciascuna. Poi, all’uscita, la maggiore era a sinistra, la minore a destra; e le colombe cavarono a ciascuna l’altro occhio. Così furono punite con la cecità di tutta la vita, perché erano state false e malvage”. Una pena che si presta a innumerevoli interpretazioni, tra cui quella cristiana esoterica del teologo Attilio Mordini: Cenerentola è una predestinata alle “nozze mistiche”, a differenza delle sorellastre. “La pazzia e la demenza sono di solito gli esiti di chi si accosta alla Sapienza senza esserne qualificato; e la totale cecità di spirito è destino di chi presume della sola luce naturale e della sola indagine scientifica della realtà circostante, senza ricorrere umilmente alla luce interiore del Verbo di Dio”.
Certo è che i personaggi delle grandi fiabe popolari, come quelli dei miti, finiscono per essere archetipi universali dotati di un’autonoma vitalità nei secoli longeva malgrado sante inquisizioni, censure vittoriane, aggiustamenti borghesi o la corrente cancel culture. Così, quando nel 1923 lo scrittore napoletano Achille Geremicca s’imbatte in Cenerentola, gli si tornisce in mente una favola per musica che non andrà mai in scena e di cui nulla sapremmo se nel 1952, un anno dopo la sua morte prematura, un caro amico non ne avesse voluto la pubblicazione. La trama: Cenerentola, legata d’affetto a uno spazzacamino, “non appena la fortuna le si apre con l’offerta di una corona di regina, dimentica, e anzi non sa che farsi del giovane che l’aveva amata e che essa credeva di amare negli anni della sventura, e freddamente e crudelmente lo respinge, e quel giovane si lascia calpestare dai cavalli del suo cocchio”. Così quell’amico, che era Benedetto Croce, riassunse in prefazione La virtù di Cenerentola. Ciò che non più sapremo è se fosse rivestito anche di carne e ossa, sotto specifica identità femminile, l’archetipo cui ridiede parola il venticinquenne e già disincantato autore.
Stanno nel tempo e al di là del tempo quei contenuti psichici fiabeschi. E se la più simbolica unità di misura è fissata nei cent’anni, con cui scansioniamo la storia umana, formuliamo auguri e certifichiamo longevità, si capisce perché giusto tanti debba durarne il sonno della Bella Addormentata, maledetta da una fata rabbiosa con la puntura di un fuso. Non è morte ma un lungo letargo quale terra d’inverno, che ineluttabilmente si risveglierà fertile nella bella stagione. Come la dea Persefone o Kore, che dal regno di Ade risale alla luce, Rosaspina nella stanza del suo castello aspetta incosciente l’arrivo di un principe alla scadenza del secolo. E c’è ancora, e sempre è necessario, un “bacio senza consenso”: perché “essa giaceva ed era così bella ch’egli non poteva distoglierne lo sguardo. Si chinò e le diede un bacio. E a quel bacio”, spiegano i fratelli Grimm, “Rosaspina aprì gli occhi, si svegliò e lo guardò tutta ridente”. L’addormentata, commenta Mordini, è la materia “che attende il tocco della forma” e rappresenta in chiave cristiana anche “l’anima capace di vera virtù, ma non ancora sveglia all’opera della grazia divina”.
Il bacio, nella più esplicita versione di Basile, diventa uno stupro nel sonno.
Si chiama Talia in questa fiaba la Bella Addormentata. Un re andando a caccia col falcone s’imbatté in quel palazzo abbandonato, entrò e la vide che “steva comme ‘ncantata” su una sedia di velluto e sotto un baldacchino di broccato. “Credendo che dormisse la chiamò; ma, visto che quella non si risvegliava per quanto la toccasse e gridasse, avvampato dalle sue bellezze, la portò in braccio fino a un letto e colse i frutti dell’amore e poi la lasciò coricata e se ne ritornò nel suo regno, dove non si ricordò per molto tempo di quello che gli era capitato”. Rimasta incinta ma tuttora dormiente, Talia “dopo nove mesi scaricò due bambini, uno maschio e l’altra femmina, che sembravano due gioielli con pietre e che, curati da due fate apparse in quel palazzo, furono messi alle zizze della mamma”. Ebbero per nomi Sole e Luna e proprio loro risveglieranno Talia succhiando, invece di un capezzolo, il dito da cui estrassero la lisca di lino che vi stava conficcata e che aveva stregato la mamma. La storia di Basile continua perché quel re si rammenta di Talia e la ritrova, le racconta l’accaduto e s’inorgoglisce dei propri figli. Un brutto giorno però la legittima regina scopre questa famiglia segreta e ordina di sterminarla per darla in pasto al marito traditore. Sarà il solito cuoco pietoso a salvare le vittime designate scambiandole con capretti. Nel finale, ovviamente, prevalgono i buoni. Ed è la furibonda regina a finire bollita “nello stesso fuoco acceso per Talia”.
Mentre la Rosaspina dei Grimm si conclude con l’atto del bacio e uno sbrigativo “vissero felici fino alla morte”, per questa fiaba persino il galante Perrault prosegue come Basile fino alla cruenta chiusa, sostituendo però alla regina moglie la mamma del re, che era “di razza orchessa” e voleva gustare per sé quelle carni innocenti. Finirà giustiziata dal figlio in “una tinozza, piena di rospi, vipere, bisce e serpenti”. Un matricidio qui tuttavia giustificato – “Il Re ci rimase piuttosto male, poiché era pur sempre sua madre” – e che ha provvisto di abbondante materiale gli studiosi di psicologia.
La tensione accumulata col racconto si distende nella morale della fiaba, che riconduce lo scrittore francese ai consigli da salotto: attendere un marito ricco, bello, galante e dolce è cosa naturale, ma aspettarlo cent’anni dormendo è impresa dura per tutte. In altre parole, ecco quelle di Bettelheim, il bacio del principe alla Bella Addormentata non deve troppo tardare: “Soltanto un positivo rapporto con l’altro ci ‘risveglia’ dal pericolo di trascorrere la nostra vita dormendo. Il bacio del principe rompe l’incantesimo del narcisismo e desta una femminilità che fino ad allora era rimasta scarsamente sviluppata. Soltanto se la fanciulla diventa una donna la vita può continuare”. Calando ogni fiaba nel tempo in cui è raccontata, e giacché il tempo è questo, oggi probabilmente il sonno delle dormienti è più lungo rispetto a quello di mamme e nonne, come un Erasmus proteso verso una maturità ipotetica, mentre anche i principi sembrano restii all’iniziativa per evitare complicazioni (o forse dormono anche loro en attendant).
Il rischio del sonno prolungato, secondo la massima studiosa junghiana di fiabe Marie-Louise von Franz, è che una convinzione autodistruttiva acquisita nell’infanzia (la puntura del fuso provocata dalle frasi taglienti di una mamma aggressiva) spenga “ogni sviluppo interiore” delle facoltà creative e delle possibilità di autorealizzazione. Le principesse ferite, “giunte all’età adulta, sembrano vivere in letargo e muoversi secondo un destino oscuro: tutto stagna, inesplicabilmente”. Ma loro, dormendo, neppure se ne rendono conto fino al “bacio del principe”. Che non è solo o tanto una persona quanto il risveglio della consapevolezza, un incontro con se stessi, la fecondazione creativa da cui tutti auspichiamo sempre la nascita di Sole e Luna. Anche dopo cent’anni di vita trascorsa a dormire, o a sognare. Oppure in qualche dormiveglia così così.