LE VITE DEGLI SCRITTORI E LE NOSTRE
In Spagna l'autobiografia si fa racconto del paese intero, con tutte le sue curve
Le vicende personali di un padre e quelle collettive di una nazione s'intrecciano nell'ultima opera di Elvira Lindo, da poco in libreria anche in Italia
In Spagna i romanzi in cui gli scrittori ricostruiscono la vicenda recente della propria famiglia sono ormai una specialità letteraria nazionale. Sono libri in cui vengono cuciti insieme documenti, ricordi personali e moltissimi “non detti” – ed è proprio qui, per raccontare le memorie imprendibili, che serve uno scrittore vero. Il terminale italiano di questa via iberica all’autofiction, con la quale si sono misurati molti scrittori di grande talento, è l’editore Guanda, che ha tradotto alcuni dei libri migliori di questo filone. Come “Il sovrano delle ombre” di Javier Cercas. O “In tutto c’è stata bellezza” di Manuel Vilas. O, ancora, “Il rumore di quest’epoca” di Fernando Aramburu, che non è un romanzo ma è una raccolta di “pezzi brevi”, in cui si riconoscono gli attrezzi con cui Aramburu ha edificato “Patria” e altre sue opere di fiction.
Da questi libri – perfino quando sono costruiti (è il caso di Vilas) intorno all’intimismo più radicale – emerge però anche l’autobiografia, storica e geografica, dell’intera Spagna. Benché nello loro pagine si affaccino anche frammenti della Storia maiuscola (la Battaglia dell’Ebro in Cercas, il terrorismo in Aramburu), in questi romanzi si rintracciano perlopiù una storia minuscola e una geografia altrettanto minuta. In Cercas ci sono l’Estremadura rurale e la Catalogna di quelli che, come lui, ci sono arrivati da “fuori”, dalla Spagna interna. In Aramburu c’è il Paese basco. In Vilas c’è l’Aragona, con la cittadina di Barbastro e con Saragozza, il grande centro incastonato in mezzo a quella che un altro scrittore, Sergio del Molino, ha chiamato la “Spagna vuota”.
Anche “A cuore aperto” di Elvira Lindo, appena pubblicato proprio da Guanda (336 pagine, 19 euro, traduzione di Roberta Bovaia) contribuisce ad arricchire l’autobiografia minuscola della Spagna. In questo romanzo la scrittrice compie una splendida ricognizione intorno alla figura di suo padre. E’ un ritratto indulgente e impietoso, razionale e commosso, filiale e documentario, minuzioso e incompleto, perché il passato trattiene comunque per sé qualche tessera del mosaico. Il libro, quindi, è molto personale. Eppure, è anche “collettivo”. Ed è questo l’aspetto che qui ci interessa di più.
Gran parte del romanzo si svolge nella curva temporale che va dall’indomani della Guerra civile alla democratizzazione. E’ un periodo interessantissimo proprio perché sembra che, dietro i pesanti tendaggi franchisti, non sia successo nulla per quasi quarant’anni. Era, quella, una Spagna che cercava di assomigliare all’Italia, ma, mentre qui ci esaltavamo per il boom e poi ci infiammavamo nella contestazione, lì si sciroppavano un regime che li condannava alla mancanza di libertà e anche alla noia più spaventosa.
Parlando del padre, Elvira Lindo scrive così: “Io, che […] ho […] venerato le storie dell’esilio spagnolo, che ho commiserato chi è stato costretto a partire, chi ha dovuto farsi una nuova vita lontano dalla propria terra privato di tutto quello che era suo, vedo adesso in lui uno di quegli sventurati che invece sono stati costretti a restare, a dimenticare il trauma della guerra che aveva marchiato la loro infanzia e a tirare avanti in un paese di merda”.
Ecco: è proprio lo sfondo del romanzo, quel paese di merda, a fornire ulteriori elementi all’autobiografia minuscola della Spagna. Un paese in cui, anche in quegli anni, proprio come in tutti gli altri paesi, di merda o no che fossero, milioni di persone hanno sofferto, sono state felici, si sono realizzate, hanno fallito, si sono amate, hanno cresciuto dei figli, si sono fatte del male, si sono tradite e hanno lasciato dei buoni ricordi.
La famiglia di Elvira si trasferisce di continuo, al seguito del lavoro itinerante del padre, capocontabile nei cantieri delle grandi opere pubbliche con cui la Spagna simulava di diventare quel paese moderno che non sarebbe diventato se non dopo la fine della dittatura. E quindi il romanzo ci porta in molti posti. Ci immerge nell’identità isolana di Palma di Maiorca. Ci accompagna fino a Cadice, nell’estremo Sud. Ci fa infreddolire nella Sierra Pobre, nel villaggio temporaneo costruito per le maestranze che lavorano a un’enorme diga. Ci apre la pensione della nonna, nella Ciudad Jardín di Malaga. Ci fa sedere ai banconi dei bar della periferia di Madrid. Ci fa patire il mal d’auto, a bordo di una Seat 1430, negli interminabili viaggi verso l’entroterra valenciano. E ci consegna così un’autobiografia geografica, quasi completa, della Spagna contemporanea.