Da Battiato a Raggi
Cinghiale bianco, cinghiali neri
Quello della musica e quelli della Capitale. Animale spirituale o impuro. Ritratto di un mammifero diventato domestico
Spero che ritorni presto l’èra / del cinghiale bianco / spero che ritorni presto l’èra / del cinghiale bianco”, cantava Franco Battiato in quel disco che uscì il 10 settembre 1979, e che lo fece conoscere al grande pubblico. Segnò l’accostamento dell’artista alla new wave, dopo un periodo sperimentale che era durato per tutto il decennio e che lo aveva visto in contatto pure con Karlheinz Stockhausen. La critica applaudì, ma qualcuno si domandò se non avesse condito di “suoni e versi pretenziosi” all’eccesso, apposta “per salvarsi l’anima”. Un tarlo che ha continuato evidentemente a rodere in tanti, visto che poco più di un anno fa fu Michela Murgia a chiosare: “Battiato è considerato un autore intellettuale e invece ti vai a fare l’analisi dei suoi testi e sono delle minchiate assolute. Citazioni su citazioni e nessun significato reale”. Concedeva, è vero, “tolti due testi, forse”. Si dimenticò di precisare quali.
Coincidenza inquietante, invece, Franco Battiato se n’è ora andato nell’èra dei cinghiali neri. In un momento in cui la campagna elettorale di Roma gira attorno al video di un gruppo di zannuti ungulati che a Formello, nel parcheggio di un supermercato, accerchiano una signora, la rapinano della borsa della spesa e si mangiano tutto. “Ratti, cinghiali, roghi. Lo stato brado, nella capitale d’Italia”, twitta Calenda. “Formello non è un comune amministrato da me, ma da un sindaco della Lega. E comunque la legge prevede che siano le Regioni con le loro amministrazioni a gestire la fauna selvatica”, scrive la sindaca Virginia Raggi, e si assume le sue responsabilità in uno stile che è tipico di tutto un modo di governare. “L’invasione dei cinghiali a Roma è una vergogna firmata Raggi e Zingaretti”, è la proposta di conciliazione di Maurizio Gasparri di Forza Italia. Ma è di Forza Italia anche Michela Vittoria Brambilla, che assieme ad altri ambientalisti denunciò come “assassini” sia il presidente della regione Lazio che la sindaca di Roma per l’abbattimento di una “famigliola” di sette bestiole, “giustiziate” lo scorso ottobre dalla polizia in un parco dell’Aurelio.
Ma d’altronde non c’è solo la profezia di Battiato. “Aridatece er cinghialone!”, fu un’invocazione che iniziò a echeggiare da metà anni Novanta in memoria di Craxi, quando si iniziò a vedere l’andazzo della Seconda Repubblica. “Aridatece i cinghialoni!” fu una rapida evoluzione, in rimpianto di tutta una fauna politica. E intanto a Roma il cinghiale è diventato ormai animale talmente iconico che, in attesa di sostituirlo direttamente alla Lupa di Romolo e Remo nell’emblema dell’Urbe, anche il pavese Max Pezzali nella canzone uscita l’8 novembre 2019 ne parla al tassista che gli chiede: “‘Lei è milanese?’ / Certo che anche voi dell’Inter state messi male / A noi ci resta solo il derby della capitale”. “Però Tomba di Nerone sta proprio in culandia / Come c’è finito là mi scusi la domanda”, è l’angoscioso dubbio. “Gli rispondo solamente mi ci porta il cuore / Sceglie tutto gioia e lacrime e pure il quartiere / Chissà se stasera incontro il mio amico cinghiale / Che non è un soprannome è proprio l’animale / Che mi sta simpatico perché ha lo sguardo triste / Ma mi fa le feste”. “In questa città”, appunto: l’èra dei cinghiali neri. Ma il cinghiale cucciolone di Pezzali non corrisponde all’identikit dei predoni di Formello, e gli “assassinati” dell’Aurelio sono altra cosa rispetto all’animale totemico evocato da Ambrogio Sparagna nella sua hit del 2002 “Vorrei ballare” come guida alle gioie della campagna. “E ritornare per un momento / verso i terreni che portano vino. / In quelle vie di dolce collina / provare a gustare i segreti dell’oro / E poi ancora una volta cercare / le strade dei boschi dai frutti spinosi / seguire i passi di un forte cinghiale / primo a scoprire i ricci caduti”.
Che il cinghiale fosse animale ambiguo lo avvertirono anche i cultori di storia dei simboli che provarono a spiegare il senso del primo successo di Battiato. In realtà, basta tener presente altre canzoni dello stesso album come “Il re del mondo” o “Magic shop” per risalire subito a René Guénon. Giusto nel 2021 ricorre il centenario della pubblicazione dei primi due libri dello scrittore, filosofo e soprattutto esoterista che è stato per un secolo un punto di riferimento di esoteristi e mistici. “La pace ritornò / Ma il re del mondo / Ci tiene prigioniero il cuore / Nei vestiti bianchi a ruota / Echi delle danze sufi / Nelle metro giapponesi, oggi / Macchine d’ossigeno / Più diventa tutto inutile / E più credi che sia vero / E il giorno della fine / Non ti servirà l’inglese / E sulle biciclette verso casa / La vita ci sfiorò”, cantava Battiato nella canzone che prende il titolo dal libro di Guénon del 1927.
“E più si cresce e più mestieri nuovi / Gli artisti pop, i manifesti ai muri / I Mantra e gli Hare Hare a mille lire / L’esoterismo di René Guénon”, è il nome e cognome fatto espressamente in “Magic Shop”, un’altra traccia dell’album “L’era del cinghiale bianco”. Nel 1962 uscì postumo, 11 anni dopo la morte, il libro “Simboli della Scienza sacra” in cui Guénon analizza la figura del cinghiale, tracciando un parallelo fra la mitologia dei celti e la tradizione indù. Dei primi era discendente, in quanto francese. Dell’induismo si considerava seguace: talmente ortodosso che si convertì all’islam perché il vero induismo non vuole conversioni, e ritiene che se qualcuno merita di diventare indù sarà il suo karma a portargli la reincarnazione giusta.
Per i celti, al di là delle abbuffate immaginate nei fumetti di Asterix, il cinghiale è animale sacro. Simbolo dell’autorità spirituale e contrapposto all’orso, emblema del potere temporale. Artù, simbolo del re perfetto, deriva il suo nome da un britannico che sta per “Re Orso”: Artorig, Arto come il greco arktos, da cui l’Artico come terra dell’Orsa maggiore e dell’Orsa minore, rig come il latino rex, anche se invece i romani lo rendevano col rix (per esempio in Vercingetorix, “giustissimo re dei guerrieri”).
Per la tradizione indù il cinghiale (varāha) è innanzitutto il terzo dei dieci avatar di Vishnu. Ci si trasformò, racconta Tremal-Nail a Sandokan nelle “Due tigri” di Emilio Salgari, “per squarciare il ventre al gigante Ereniacsciassen che si divertiva a sconquassare il mondo”. Ma il cinghiale rappresenta anche la Shwêta-varâha-Kalpa: l’èra (o ciclo cosmico) del cinghiale bianco. Età mitologica e magica, durante la quale ogni uomo raggiunge la conoscenza assoluta in senso spirituale: e probabilmente quando Battiato scelse il titolo del “cinghiale bianco” deve aver pensato anche al cinghiale bianco che re Riccardo III d’Inghilterra aveva messo nel suo emblema.
Il fascino degli indoeuropei per il cinghiale, oltre che tra celti e indù, lo troviamo inoltre tra i germani, nel cinghiale simbolo di fertilità della mitologia norrena. E anche tra i greci e romani, anche se un cinghiale sbudella Adone, l’amato di Afrodite: non è chiaro se mandato a Ares per gelosia, o da Apollo o Artemide per vendetta. Come ricorda Michel Pastoreau nel suo “Medioevo simbolico”, “nell’Antichità, la caccia al cinghiale è particolarmente apprezzata, e questo tanto tra i Greci e i Romani quanto tra i Germani e i Celti”. “I Romani amano cacciare il cinghiale: si tratta di una selvaggina nobile, di una bestia temibile di cui si ammira la forza e il coraggio”, spiega sempre Pastoreau. Per i cacciatori è un avversario estremamente pericoloso che lotta sino alla fine morendo senza fuggire né indietreggiare. Per ciò stesso, è selvaggina rispettata e ricercata”. Si pratica a piedi, e finisce in un cavalleresco corpo a corpo, pur dopo un lavoro di battuta con cani e reti. Acer, ferus, fremens, fulmineus, rubicundus, saevus, spumans, torvus, violentus sono alcuni degli aggettivi con cui i poeti latini lo definiscono. “Cervos relinques vilico”, esorta poi Marziale. “Lascia al buzzurro il cervo”: animale vigliacco, dalla carne considerata molle e non igienica.
Pure per i giovani germani affrontare da solo un orso o un lupo è un rituale indispensabile per essere considerati guerrieri. Sia il nome dell’orso, Bär, che quello del cinghiale, Eber, vengono da una radice *bero che sta per combattere e colpire. E tra i celti è la selvaggina regale per eccellenza. “Numerosi, nelle mitologie celtiche, i re o i principi che inseguono in una caccia senza fine un cinghiale”, scrive ancora Pastoreau. “In particolare un cinghiale bianco, che li trascinerà alla morte”. Torniamo all’era del cinghiale bianco, pur se in accezione opposta.
Per l’ebraismo, però, il cinghiale è pur sempre un suino. Animale impuro. Islamismo e cristianesimo ereditano questa diffidenza, anche se in occidente si confronta con l’antico prestigio indoeuropeo. L’ammirazione per il cinghiale e la sua caccia regge per l’Alto Medioevo, ma già nel XIII e XIV secolo tende a scomparire dai manuali di caccia. La selvaggina regale è ormai diventato il cervo. Da una parte, la chiesa ne fa un animale cristologico: i suoi palchi sono dieci come i comandamenti, le sue corna che ricrescono prefigurano la resurrezione, il cervus evoca il servus del Signore, e poi il cervo si sacrifica. “E così sarà, buon signore / Che il corpo del tuo vecchio servo / Sette volte darà frutto / Sette volte fiorirà”, è il modo in cui Angelo Branduardi evoca questo immaginario nella sua canzone “Il dono del cervo”.
Dall’altra, le cavalcate e gli spazi necessari per cacciare il cervo servono ai nobili per ostentare superiorità sui pezzenti che devono accontentarsi del cinghiale, rovesciando così completamente lo stereotipo di Marziale. A quel punto, Henri de Ferrières nei suoi “Livres du roy Modus et de la rouyne Ratio”, composti tra 1360 e 1379, dice addirittura che il cinghiale ha dieci proprietà diaboliche: è brutto, nero, dal pelo ispido, vive nelle tenebre, è malvagio, collerico e pieno d’orgoglio, litigioso, possiede due zanne temibili degne dei forconi dell’Inferno, non guarda mai verso il cielo ma ha sempre la testa seppellita in terra, scava il suolo tutto il giorno e non pensa che ai piaceri terrestri, è sudicio e trova il suo piacere nella melma, le sue zampe sono storte, è pigro. Quando ha ben rovistato e mangiato, non pensa che a riposare nella sua tana. Viene il dubbio, insomma, che anche la regina Ratio fosse stata assalita da qualche ungulato mentre andava con la borsa della spesa… Va detto che il loro gusto per l’uva ne fa anche un pericolo per i viticultori. Non a caso quando il 15 giugno 1520 Leone X manda contro Martin Lutero la bolla “Exurge domine”, nel paragonare la chiesa a una vigna paragona il ribelle a un cinghiale che si appresta a devastarla. “Exterminate nititur eam aper de silva, et singularis ferus depasci eam”. Anche qui, sono passati giusto cinque secoli.
C’entra anche il Covid, magari. Oltre a spostare di un mese la data simbolica di esaurimento annuo delle risorse del mondo e ad affossare l’industria del petrolio, la pandemia ha riconsegnato spazi sempre più vasti alla flora e fauna selvatica, che video di tutto il mondo hanno mostrato a spadroneggiare nelle città. Ma almeno un milione di cinghiali in Italia aveva iniziato a spadroneggiare già da molto prima, e un po’ dappertutto. Dal Molise a Genova alla Sicilia, dalla Puglia a Pistoia e al Veneto, dove Zaia ha autorizzato i cittadini a cacciarli e mangiarli. E, anzi, non solo in Italia. Fino al 1915, spiegano gli scienziati, la loro popolazione italiana era quasi nulla e limitata alla Maremma e alla Sardegna, data la mancanza di territori favorevoli ove insediarsi e la caccia intensa cui era soggetto come prelibatezza. Così nel 1900 era sparito dalla Danimarca, dalla Tunisia e dal Sudan, ed era sull’orlo dell’estinzione in Germania, Austria e Russia.
Ma il cinghiale ha un tasso di riproduzione annuo che varia dal 120 al 200 per cento: a volte arriva al 300. È bastato l’abbandono dei territori montani da parte dell’uomo, e anche la rarefazione dei lupi, loro nemici naturali, per riportarli, sin dal 1950, un po’ dappertutto. In Italia sono stati i cinghiali francesi che hanno passato i valichi alpini occidentali, e di lì hanno invaso prima il Nord, e poi tutta Italia. Salvo la Sardegna, che protetta dal mare ha una popolazione geneticamente diversa. E a Roma c’è in più il bonus del disastro del sistema Ama, con l’immondizia prelibato boccone a cielo aperto.
“Lo so che po’ sembravve ’na stranezza / vedemme sotto casa che scorazzo / e grufolo nei sacchi de monnezza / e che ’sta cosa ‘n po’ ve rompe le scatole”, ricorda il poeta romanesco Andrea Reali, in arte Marazico, in una poesia della sua recente raccolta “Er mestiere der poeta”. Ma l’ungulato poi ricorda: “Pensate che ’na vorta da ’ste parti / quanno che Roma n’esisteva ancora / nun ce toccava ingurgità li scarti / de cui mo ce riempimo l’interiora. / Ce stava er fiume che scoreva lento / e prati verdi, e boschi tutt’attorno. / Cor lupo e l’orso me godevo er vento / magnanno frutta fresca tutto er giorno”. Insomma, “tu credi d’esse eterno su ‘sta tera / d’ese er padrone e fa come te pare. / Io aspetto che finisca la tua èra, / che tutto torni verde fino ar mare / e che do’ mo ce sta fero e cemento / ritorni a score solo er fiume, lento”.
Insomma, un’altra profezia ancora su una prossima èra dei cinghiali. Stavolta, bianchi e neri assieme.