Di yoga e morte
Emmanuel Carrère cercava la meraviglia e la serenità. Ha trovato la malattia mentale. E il suo ultimo romanzo è un processo a se stesso
A Emmanuele Carrère piace una frase di Glenn Gould che suona così: “Lo scopo dell’arte non è procurare una momentanea scarica di adrenalina ma la costruzione paziente, che dura tutta la vita, di uno stato di meraviglia e di serenità”. E’ una frase che sorprende detta da un musicista nevroticissimo, ipocondriaco e vagamente paranoico. E sorprende anche che Carrère riveli, nell’ultimo romanzo, Yoga, uscito l’anno scorso in Francia da P.O.L. e ora in Italia da Adelphi, di averne fatto una specie di mantra personale. Perché anche Carrère, stando ai racconti che fa di sé – e ne fa nei dettagli in tutta la sua opera – non è che si senta molto bene. Almeno spesso. Almeno alternando stati di malessere grave a periodi in cui si illude di essere normale, sereno e in buona salute.
E’ l’inizio del 2015, si sta godendo il grande successo del suo romanzo Limonov, tradotto in tutto il mondo. Il secondo matrimonio procede tranquillo. Ha la popolarità, l’amore e si dedica allo yoga da qualche anno. Sopravvalutando questa pratica, probabilmente, ritiene che proprio yoga e meditazione gli abbiano insegnato come va presa la vita per starsene appagati e al sicuro. Per questo era andato pensando di scriverci su qualcosa, un nuovo libro, placato e meditativo. Aveva persino valutato, senza remore a confessarlo, che magari sarebbe stato un affare. Con tutta la gente che pratica nei vari continenti, un libro così avrebbe potuto vendere un sacco di copie, più di quelle che lui, per quanto famoso, sia riuscito a vendere fino a ora. Però non aveva messo in conto una cosa, che esprime con queste parole sciagurate: “Non per vantarmi, ma posseggo un autentico talento nel trasformare una vita a cui non manca niente per essere felice in un vero e proprio inferno, e non permetterò a nessuno di minimizzare questo inferno: è reale, terribilmente reale”.
Il lettore è avvertito, sta per succedere qualcosa di catastrofico. E non è lo tsunami di Vite che non sono la mia contro cui non si può niente, solo affidarsi al destino che alcuni travolge e altri risparmia. Ci sono catastrofi, altrettanto distruttive, che vengono dall’interno di se stessi, da quel certo talento di guastare insensatamente la sempre precaria felicità. E siccome Carrère è un abile narratore, adesso – come vuole la suspense – veniamo lasciati in sospeso su tale tema e ci becchiamo un bel po’ di pagine sulla “pratica”. Partiamo con lui e un gruppo di sconosciuti per un posto isolato, da qualche parte nella Francia centrale, per una decina di giorni di totale silenzio. Silenzio e meditazione. Inspira ed espira, libera la testa e libera il cuore, fai il vuoto nella mente, lascia andare ogni passione, sentimento, frustrazione: via.
“Osservare la propria respirazione, seduti immobili su un cuscino, è quel che si chiama meditare, pratica sempre più diffusa e che avrebbe dovuto essere l’unico argomento di questa storia se solo la vita non l’avesse trascinata, come vedrete, in mari più burrascosi”. Anche perché senza mari burrascosi, questa storiella di gong e posizioni, gambe incrociate e respiro nelle narici, tanto lontano non sarebbe andata. Come l’avrebbe messa Carrère con le sue più profonde contraddizioni? “Vorrei essere un uomo buono, vorrei essere un uomo attento ai suoi simili, vorrei essere un uomo affidabile. Sono narcisista, instabile e ossessionato dall’idea di essere un grande scrittore”.
Viva la faccia della sincerità. Deve sentirsene profondamente convinto di essere un grande scrittore, per tirar fuori una frase del genere. Ma insomma comincia la seconda parte del romanzo. Succedono a Parigi “fatti gravissimi”. Avete presente l’attentato alla redazione di “Charlie Hebdo” il 7 gennaio del 2015? Due terroristi di Al-Qaeda entrano nella sede del giornale satirico e fanno una strage. Fra gli assassinati c’è un amico di Emmanuel. Perché Emmanuel ha quest’altra particolarità. Se si scatena uno tsunami in Sri Lanka, lui si trova lì. E se per caso non è sul posto di un’altra tragedia, ugualmente quella tragedia gli appartiene perché, come nel caso di “Charlie Hebdo”, una delle vittime è un suo caro amico. E così interrompe il ritiro e scopre l’inquietante verità: non è mica un buon meditante lui. Un buon meditante sarebbe rimasto dov’era, sapendo che il dolore è pura apparenza, appartiene al samsāra, la vita terrena, da cui il bravo meditante cerca di distaccarsi per meritarsi nella prossima vita una reicarnazione migliore in vista dell’eternità. Perché la verità dell’esistenza è altrove, non nel mondo materiale.
Ma Emmanuel non riesce a staccarsi da angoscia e infelicità. Altro che vuoto nella mente. Lui soffre. E torna a Parigi interrompendo la sessione, per commemorare in una pubblica cerimonia l’amico e gli altri, morti nella terribile circostanza.
I lettori di Carrère lo sanno, i suoi romanzi funzionano come montagne russe. E’ una delle sue caratteristiche portare il racconto su e giù a velocità folle. E non sai mai bene in che direzione vai. Mentre l’autore ti sta dicendo qualcosa di molto personale e privato (una sua meravigliosa scopata con una sconosciuta, per esempio), giri pagina e ti ritrovi dentro una lunga digressione su personaggi che dovrebbero essere secondari e invece si piazzano in una posizione assolutamente centrale per lunghi paragrafi. E ti conquistano con le loro storie, i loro litigi, le loro malattie, i loro amici violenti, la loro vita e la loro morte. E non sono mai personaggi inventati. Carrère ci assicura di no. Inventa anche, inevitabilmente.
La letteratura funziona così. Ma se inventa, quando inventa, lo fa intorno a un nucleo di verità, di vita realmente vissuta, di gente che ha conosciuto, con nome e cognome, che magari poi, quando va a leggere, non è troppo d’accordo con il ritratto di sé che scopre nel libro. E’ dai tempi dell’Avversario che Carrère ha inaugurato questa tecnica. Essere sempre presente sulla scena, ma con la capacità di lasciare al momento giusto tutto lo spazio a esistenze che non sono la sua.
Nell’Avversario la storia era talmente clamorosa che sarebbe bastata da sola alla costruzione di un plot indimenticabile. La terribile vicenda di Jean-Claude Romand, ricordate? Il 9 gennaio del 1993 questo mite quarantenne che tutti credevano un medico ricercatore, e che invece non era nemmeno laureato e viveva di oscuri espedienti, uccide la moglie, i due figli, gli anziani genitori e il loro cane, perché non è più in grado di condurre quel gioco di finzioni, portato avanti per diciotto anni, e non sarebbe riuscito a sopportare lo sguardo e il giudizio dei suoi cari messi di fronte alla verità. “Sono entrato in contatto con lui e ho assistito al processo” è la scelta di Carrère.
“Ho cercato di raccontare con precisione, giorno dopo giorno, quella vita di solitudine, di impostura, di assenza. Di immaginare che cosa passasse nella testa di quell’uomo durante le lunghe ore vuote, senza progetti e senza testimoni, che tutti presumevano trascorresse al lavoro e che trascorreva invece nel parcheggio dell’autostrada o nei boschi del Giura. Di capire, infine, che cosa in un’esperienza umana tanto estrema, mi abbia così profondamente turbato – e turbi, credo, ciascuno di noi”.
Ho un ricordo personale di tanto tempo fa su Emmanuel Carrère, che non coincide per niente con l’immagine dell’uomo di oggi così prepotentemente presente nelle cose, testimone del suo tempo. Era il 1988. S’inaugurava a Torino in maggio La Fiera del Libro, che allora si chiamava Salone. La casa editrice con cui avevo esordito, Theoria, partecipava con una manciata di suoi autori italiani e uno straniero, sconosciuto da noi, ma che in Francia si era già fatto notare con i suoi primi due romanzi e un saggio su Werner Herzog. Era Emmanuel Carrère e il libro tradotto da Theoria e destinato a un notevole successo s’intitolava I Baffi. Conobbi così un trentenne timidissimo che di anni ne dimostrava almeno dieci di meno, nervoso e afasico, sempre con le mani intrecciate l’una all’altra, il lungo sorriso a bocca chiusa fisso sul volto, folti capelli castani e gli occhi buoni. Non ci siamo detti granché perché ero timida anch’io, ma ho memoria di qualche risata davanti a un bicchiere di vino sulla comune condizione di scrittori esposti in un “salone” come fossimo automobili, e lo scherzo di stabilire che macchine volevamo essere. Io scelsi sicuramente la Diane Citroën perché era una mia fissazione, lui non so più.
Ricordo invece con precisione che lo vidi animarsi davvero soltanto parlando di Hong Kong, un luogo dove avrebbe voluto vivere. Mi rimase talmente impresso quel suo racconto di Hong Kong che, quando diversi anni dopo sono capitata nel Porto Profumato (questo il significato letterale del nome) ho pensato, meravigliandomi perché non gli avevo creduto molto, che Carrère sul fascino di Hong Kong aveva proprio ragione. E adesso, rileggendo I Baffi, romanzo ancora in terza persona, e ritrovandovi le descrizioni di quella città e la nevrosi del protagonista, mi dico che non c’è bisogno di aspettare L’avversario, nel 2000, per vedere – come vuole la critica – una svolta nello stile del narratore francese. Carrère ha sempre parlato di sé, anche prima di dire “io”, prima di mettere in campo dichiaratamente se stesso e i fatti suoi. La sua è una forma particolare di autobiografia che ha bisogno per raccontarsi di riflettersi costantemente in vicende altrui e insieme di scendere nel fondo buio del proprio mistero interiore.
E se adesso torniamo al recentissimo Yoga, alla catastrofe annunciata che esplode a metà libro, nella terza delle cinque parti in cui è diviso, quella intitolata “Storia della mia follia”, troviamo qualcosa che mi riporta violentemente al giovane uomo di allora, figura spezzata e fuori posto, che ha scelto a un certo punto di concepire la letteratura come il luogo in cui non si mente, per usare parole sue e il suo corsivo, correndo tutti i rischi che una scelta del genere comporta. Improvvisamente e senza ragione apparente la sua vita va in frantumi, famiglia, felicità, tutto. Scopre di avere un disturbo molto più grave della depressione con cui ha imparato a convivere: un medico gli dice che è un bipolare, per questo spinge la propria vita in due direzioni diametralmente opposte. Ma a questo punto mi fermo, smetto di raccontare la trama perché un’altra delle doti di Carrère, qualunque vicenda narri, è di mantenere accesa la tensione fino alla fine come si fosse in un noir, e non è permesso svelare il finale di un noir prima del tempo. Ma in realtà di nero in Yoga si trova soltanto la burrasca della vita, soprattutto quando si perde il controllo e tutto salta per aria. Ma proprio tutto.
A proposito di noir, c’è poi molto cinema (noir) nei libri di Carrère, che del cinema è un cultore. Scrive anche sceneggiature, ha girato come regista un film da Baffi e un documentario da cui poi è scaturito La vita come un romanzo russo (Einaudi): ancora una volta trovandosi ” per caso” sulla scena di un feroce delitto. E forse è per questa mano da “cinematografaro” che non viene mai voglia di rileggere i suoi libri, almeno a me. La rilettura improvvisamente annoia, ti accorgi che manca la “scrittura”, mentre la prima volta sei preso in un ingranaggio inesorabile.
Ma Carrère ha altre frecce al suo arco. È anche un ottimo reporter. Penso a un breve resoconto sulla difficile convivenza fra francesi e immigrati, A Calais (sempre Adelphi), in cui spiega: “Quello che m’interessa è poter scrivere un reportage esattamente nello stesso modo in cui scriverei un libro”. E gli riesce benissimo. Non è male neppure come saggista. Prendiamo il suo contributo dentro un volumone collettivo, Cahier, edito da La nave di Teseo alla fine del 2019, dedicato all’amico Michel Houellebecq. Di nuovo si resta sorpresi dalla sfacciata sincerità con cui ammette la sua invidia per il collega che “con due o tre libri è diventato lo scrittore più celebre, di una celebrità che non esisteva più almeno dai tempi di Sartre”. Ma certo questa invidia è anche un vezzo, una posa.
Dopodiché passa ad analizzare con acume l’opera e il “pessimismo radicale” di Houellebecq, da cui prende decise distanze. A questo punto, proprio come fa nei romanzi, torna a se stesso: “Mi proteggo da Houellebecq” confessa “la sua vita non è la mia”. Cita la frase di Glenn Gould che gli piace tanto e conclude: “Non sono buddista, né veramente sicuro che esista una soluzione, ma anche il pessimismo assoluto di Houellebecq mi sembra in fin dei conti una credenza, ed è venuto il momento di dire che questa credenza non mi si addice. Non parlo più qui del mio amor proprio di autore, ma di posizione esistenziale e di strategia di vita. Poiché cerco di costruire la mia sull’intuizione che essa non vada necessariamente verso il peggio. Verso la morte, sì, d’accordo, ma credo sia possibile, come diceva magnificamente Winnicott, ‘morire vivi”.
Posizione che riecheggia nel finale del nuovo romanzo. Scrive nell’ultimo capitolo di Yoga: “Finché si può, si continua a non morire”. E il sistema è sempre lo stesso, quello di tutti: prendere gusto alla vita. Magari innamorandosi ancora una volta. In modo semplice e banale. E’ anche perché rivendica il buonsenso della banalità, in un ennesimo lieto fine che sappiamo non esserlo, che Carrère tiene in pugno i suoi lettori. Ancora una volta.