Il regista dell'Einaudi underground
Dai Cannibali a Foster Wallace, dal “crime” ai comici ai fumetti: compie 25 anni la collana Stile Libero. Paolo Repetti, che la dirige e l’ha fondata con Severino Cesari, racconta la sua avventura editoriale
Paolo Repetti ha fondato Einaudi Stile Libero insieme a Severino Cesari, 25 anni fa. Da allora, i libri che pubblica sono un fatto personale, sono tutto. Lo dice citando Michael Corleone nel “Padrino”: “Tutto è personale, ogni briciola d’affari”. La prima cosa che fa, al mattino, è dar da mangiare a un gatto, un certosino imperiale e tigresco – in realtà è un bastardino preso in un gattile – che regna su un terrazzo con vista insolita sul gazometro di Ostiense, quartiere che conserva i tentativi di fare di Roma una città industriale.
La seconda cosa che fa, al mattino, è quella che poi continua per tutto il giorno, chiamare i suoi amati editor, anche quando non ha niente da dire: “Non devono mai sentirsi tranquilli”.
E’ ansioso, ossessionato. Quando ha cominciato a lavorare nell’editoria, poco prima dei trent’anni, era uno studente universitario fuoricorso, s’interessava di psicanalisi, diceva di voler fare il terapeuta e invece era ancora un paziente. L’incontro con Vincenzo Cerami cambiò la sua vita, gli fece conoscere molti scrittori, lo aiutò a cambiare strada e dedicarsi ai libri. A poco più di quarant’anni, dopo aver lavorato a lungo per Theoria, la casa editrice di Beniamino Vignola che, scrive Emanuele Trevi nel suo “Due vite”, “per quanto piccola, aveva individuato e lanciato adeguatamente alcuni degli esordi più significativi di quegli anni”, si presentò assieme a Severino a Giulio Einaudi, il fondatore dell’Einaudi, con un progetto di collana che raccogliesse nuove voci, provasse a intercettare i cambiamenti che stavano avvenendo nell’editoria italiana e nel paese. Cesari, che è morto quattro anni fa, dirà poi, a Giacomo Papi sul Post: “Avevamo la consapevolezza che ci fossero ancora un sacco di libri che non erano stati fatti. Era uno spazio enorme che noi conoscevamo benissimo”. E così, da Roma, dopo essersi incontrati decine di volte in un’enoteca di via Goito per tirare le fila della proposta da fare al tempio dei più importanti intellettuali del Novecento, due adulti dell’underground andarono a Torino a proporre una collana che convogliasse nuove strade e altre ancora ne aprisse, che parlasse ad altri lettori. Era il 1996, stava venendo fuori una nuova generazione di scrittori, i generi letterari cominciavano a fluidificarsi, qualcosa veniva desacralizzato e qualcos’altro diventava bene museale.
L’editoria era ancora il mezzo migliore d’intervento sulla realtà.
Giulio Einaudi accettò la sfida e la complicò: diede a Stile Libero (SL) la stessa numerazione dei tascabili Einaudi. Dice Repetti, che incontro a casa del suo gatto, sul terrazzo: “Ci gettò nell’acqua fredda per vedere se saremmo sopravvissuti. Stare nei tascabili significava obbligarci a rientrare in tirature più alte, quindi a essere più esposti al fallimento. Ci tremavano i polsi ma accettammo senza esitazioni. Decidemmo che, da allora e per sempre, un nostro libro sarebbe diventato Stile Libero dopo la pubblicazione, non prima. Voglio dire che volevamo evitare di creare una linea editoriale precisa che poi finisse con il formare delle griglie troppo strette. Volevamo pubblicare saggistica, narrativa, straniera e varia; aprirci a nuovi generi, tenere tutto insieme e immaginare un lettore che amasse David Foster Wallace ma non per questo disdegnasse le ricette di Cannavacciuolo. Uno dei primi libri che pubblicammo fu ‘Consigli a un giovane scrittore’ di Cerami”.
Non un libro rivoluzionario.
“No. Proprio la libertà di pubblicare sia i maestri riconosciuti sia gli esordienti ci affascinava”.
Poi però siete diventati anche voi più istituzionali.
“Diciamo più attenti: era inevitabile. Tuttavia, lo spirito ribellista non è mai stato nelle nostre corde. Io venivo dall’editoria indipendente romana, Severino era un intellettuale del Manifesto, avevamo le nostre strutture culturali già formate, stravolgere non ci interessava: volevamo provare ad allargare un po’ gli orizzonti”.
Quando chiedo a Repetti se sia diventato o sia sempre stato un conservatore, apre uno dei molti taccuini che tiene sul tavolo e legge: “Il conservatore apprezza ciò che è adatto allo scopo e non vuole sostituirlo con ciò che è perfetto, predilige la gaiezza presente, limitata e sfuggente che sia, alla beatitudine utopica”. Poi aggiunge che la beatitudine utopica è per lui l’anticamera dell’inferno.
La facevo pragmatico, ma non così tanto.
“E’ che io amo la bontà, non il bene. Il bene è l’esercizio collettivo in nome del quale a volte si sfruttano le masse e si sfocia nel totalitarismo. Nel pensiero inglese, che non ha mai dovuto fare i conti con il fascismo, il problema del bene non si pone neppure: ci si preoccupa di fare un po’ meglio le cose empiricamente”.
Tuttavia, una dose di utopismo ci vuole per proporre a un editore come Einaudi, in quegli anni assai dedito alla contemplazione dei suoi miti (Pavese, Ginzburg, Morante, Calvino), di occuparsi di crime, fumetti, comicità, musica, sottoculture giovanili.
“Giulio Einaudi – e ora Ernesto Franco, attuale direttore generale – capì, credo, che la nostra idea poteva essere un modo per portare un contributo a quello che è sempre stato lo spirito coraggioso della casa editrice. E non era un ingenuo, anche se oggi viene raccontato come un principe dell’editoria disinteressato al mercato, come se poi il mercato fosse una cosa ignobile. E’ pur sempre l’uomo che ebbe l’intuizione geniale di vendere ‘La storia’ di Elsa Morante a un prezzo di copertina di 2 mila lire, molto basso per l’epoca. Naturalmente, Einaudi parlava in modo elegante, preferiva non usare parole come marketing o obbiettivi di mercato. Diceva: dobbiamo raggiungere nuovi lettori – che poi è il cuore di questo mestiere. Quando arrivammo io e Severino, alcuni ci considerarono come quelli che mettevano i baffi alla Gioconda. E noi ci giocammo su con una certa dose di cinismo, o forse era pragmatismo e basta. Cominciammo a sollecitare i pezzi sui giornali: chiedevamo di scrivere contro di noi per animare il dibattito e aiutare la nascita di critici nostri contemporanei. Un’operazione che ci riuscì bene fu la raccolta “Gioventù Cannibale”, che divenne un piccolo fenomeno di costume. I giornali ne parlarono in cronaca, mentre i critici più anziani tuonavano, vendendoci soltanto elogi della violenza. Sapevamo che non tutti gli autori che avevamo raccolto erano destinati a lasciare una traccia, ma c’erano almeno due numeri uno: Niccolò Ammaniti e Aldo Nove. Ci accusarono di aver fatto un’operazione a tavolino, invece fu un’operazione letteraria pura. Giulio Einaudi ci appoggiò moltissimo, una delle prime presentazioni del volume la fece Cesare Garboli, inaugurando un cammino di ibridazione, un dialogo tra classici e novità, tra alto e basso, che abbiamo poi cercato di mantenere vivo. Mettemmo in conto che quello dei Cannibali avrebbe potuto essere un libro di una stagione come molti altri: se pubblichi una collana di intervento sulle culture giovanili, ti assumi il rischio che alcuni titoli non durino più di tre mesi”.
Le è sempre andata bene?
“Scherza? Abbiamo fallito un sacco di volte, soprattutto quando abbiamo provato a entrare nel mass market (cosa che ora non ci interessa più), probabilmente spinti dal fatto che cominciavamo a vendere bene. Ricordo il flop del libro del deejay Albertino o l’agenda di Mr Bean. Non è detto che il libro di un personaggio famoso venda, specie se esce con un editore che ha un marchio di un certo tipo e ha una storia così precisa come Einaudi. In quelle due occasioni, toppammo sia sul piano commerciale che su quello editoriale. Io ebbi la faccia tosta di chiedere a Paolo Mieli uno spazio sul Corriere per il libro di Albertino: gli dissi che si trattava di un fenomeno sociale di cui il giornale doveva assolutamente occuparsi. Una settimana dopo, uscì un pezzo di Paolo Valentino, intitolato “Cinque domande a Giulio Einaudi su Stile Libero”, che ci prendeva a sberle”.
Quando siete diventati affidabili per la casa editrice?
“Subito dopo la morte di Massimo Troisi venne da noi Lello Arena, voleva che facessimo qualcosa sulla Smorfia, ma mancava il materiale. Tutto era stato fatto a braccio, allora decidemmo di sbobinare gli sketch. Affidammo il lavoro a una segretaria e a un professore di linguistica. Lello disse che sarebbe stato bello pubblicare, in allegato al testo, una videocassetta con tutte le puntate: andammo in Rai e chiedemmo i diritti, ma l’azienda non era ancora abituata a questo tipo di operazioni e ci chiese una cifra per noi inarrivabile. Alla presidenza della Rai, però, c’era Enzo Siciliano che, essendo un letterato, ci diede una mano e ci aprì le porte degli archivi. Il materiale che trovammo era frammentario, ci toccò un altro lavoro folle di ricostruzione. Ne valse la pena: il cofanetto vendette 150 mila copie soltanto a Napoli, dove per rispetto a Massimo Troisi non vennero fatte copie pirata, e altre 400 mila in tutta Italia. Gli stessi che, quando avevamo raccontato il progetto, avevano alzato il sopracciglio, ci chiesero se ne avessimo in mente altri. E così ci inventammo una mini collana e pubblicammo testi e vhs: De Andrè, Gaber, Paolini, Benigni, Dario Fo, Moni Ovadia. Il deus ex machina fu Vincenzo Mollica, lo nominammo curatore della parte musicale e ci diede una mano enorme per contattare le case discografiche, i presidenti, i manager degli artisti. Quando arrivò il dvd, purtroppo, finì tutto”.
La immagina una cosa del genere, oggi? “
Seguo il lavoro di tutte le case editrici indipendenti, e ce ne sono alcune che fanno un lavoro ottimo, come NN e L’Orma e la 66thand2nd. Di giovani che nell’editoria vedono una possibilità di fare operazioni quasi donchisciottesche non ne vedo tantissimi. Da un po’ di tempo faccio dei corsi di editoria e devo ammettere che non ho ancora notato qualcuno che abbia del genio per questo mestiere. Ma sa, è fortuna”.
Come si riconosce il genio?
“Dall’ambizione. Un conto è voler fare il correttore di bozze o il redattore, un altro è voler cambiare l’editoria italiana. Né io né Severino ci saremmo mai proposti a Einaudi come funzionari editoriali”.
Si sente mai inadeguato?
“Continuamente. Penso sempre che mi stanno sfuggendo delle cose, che non sto leggendo abbastanza, che sto perdendo possibilità e idee. E questo triplica la mia fame”.
Quanto è libero?
“Godo di una libertà pressoché totale. Ed è la ragione per la quale non andrei mai via da Stile Libero”.
Lei è riuscito almeno in due miracoli: ha portato la grande editoria a Roma e si è fatto amare dagli autori antiberlusconiani, pur prendendo lo stipendio da Berlusconi.
“Che SL si sarebbe dovuta fare a Roma è stata la condicio sine qua non. Io sono stanziale, non lascerei mai questa città. Non viaggio per più di un paio di settimane l’anno, la sola volta che sono rimasto in vacanza per un mese ero a San Francisco, da un avvocato ricchissimo con il quale avevo fatto un cambio casa: restai rintanato nella sua splendida villa tutto il tempo. Su Berlusconi, invece, le dico due cose: il management del gruppo è molto attento e preparato, l’analisi dei conti cui siamo sottoposti è sempre scrupolosa, ma non abbiamo mai ricevuto alcuna pressione sui contenuti. La nostra autonomia dipende esclusivamente dai risultati che portiamo all’azienda”.
Come ha fatto a reggere l’urto dello scandalo?
“La divisione ci fu quando Berlusconi diventò presidente del Consiglio. Alcuni trovarono inaccettabile che il premier fosse il loro editore, altri, a parer mio più saggiamente, distinsero la proprietà dalla casa editrice e la sua storia. Consideravano l’Einaudi casa loro”.
Succede mai che pubblica un libro che non le piace, ma che è importante che arrivi in libreria?
“Pubblico Vitaliano Trevisan anche se non vende moltissimo perché trovo che sia uno scrittore eccezionale, e pubblico libri medi, che mi lasciano indeciso fino all’ultimo”.
Combatte con la concorrenza per aggiudicarsi uno scrittore?
“Quotidianamente”.
Ha mai fatto a botte?
“Quasi. L’editoria è un settore industriale dove l’elemento personale è ancora molto presente”.
Peraltro è il settore d’intrattenimento che è andato meglio in pandemia, con ricavi di più del trenta per cento.
“Credo sia dipeso dal fatto che i libri erano la cosa più facile da comprare e il desiderio di shopping, durante la reclusione, è aumentato a dismisura. In secondo luogo, il libro è inattaccabile, i supporti digitali non hanno cambiato la sua fruizione: chi legge lo fa perché vuole stare in pace, da solo. Qualcuno ha detto che se il libro fosse stato inventato dopo l’ebook, sarebbe stato considerato un’invenzione molto più avanzata”.
Lei non è un editor. Cura il destino, la comunicazione, l’aspetto di un libro. Il publishing è tutto?
“No. L’editing può trasformare un libro stortignaccolo in un buon libro, per esempio. Io ho una squadra straordinaria: Rosella Postorino, Francesco Colombo, Angela Tranfo, Paolo Valoppi e Mario Capello. A coordinarci tutti c’è Daniela La Rosa. Il mio lavoro consiste nell’immaginare come un libro debba essere lanciato e raccontato”.
Che succede quando non c’è un libro ma solo l’autore?
“Impossibile. Lacan diceva che lo psicanalista si autorizza da solo con la targhetta fuori dalla porta: allo stesso modo, lo scrittore diventa scrittore quando pubblica il suo libro. Certo, oggi gli editori procedono con più fretta, meno cura, maggiore fatalismo”.
La vicenda personale dell’autore quanto conta?
“A me non importa. M’innamoro dei libri di cui non posso fare a meno di parlare. Ci sono anche quelli costruiti a tavolino, naturalmente. E le assicuro che non è un fenomeno soltanto italiano. In Germania pubblicano più che da noi, ma da noi i lettori sono sempre lettori forti, che non sono in numero così inferiore rispetto a quelli di altri posti. L’area del mass market tascabile fa la differenza e altrove conta su una borghesia molto più abituata a leggere”.
Si diverte?
“Di più: io vivo per questo. La letteratura è il solo strumento di ambiguità rimasto in questo mondo. Un romanzo non dirà mai la verità e l’assenza di verità è l’antidoto più forte alle fake news”.
Se non avesse fatto l’editore, come sarebbe andata?
“Male, credo. La prima volta che misi piede in un ufficio, diedi fuoco a un cestino con le sigarette. Ero inadatto, nevrotico, terrorizzato. E spesso mi domando come sia stato possibile che una persona con la mia fragilità psichica, anziché finire a fare il bibliotecario, abbia fatto Stile Libero”.
Che ambizione ha?
“Vivo con l’acqua alla gola: non desidero altro che farla scendere al collo e respirare”.
Che cosa c’è in quell’acqua?
“La paura di essere scoperto come un bluff”.
Lei è una persona orribile? Ho sentito che qualcuno la chiama l’orrido Rep.
“Dispongo della mia giusta quota di cinismo. Del resto, fino a quando SL non ha costruito una sua lobby, non è entrata nel mercato. Una volta, agli inizi, Gian Arturo Ferrari ci disse che eravamo ‘quelli della banda della Magliana’. Ora siamo una delle colonne dell’Einaudi”.
Ha molti amici?
“Pochi, quelli di una vita. Quasi nessuna donna”.
Severino Cesari le manca?
“Certo. Era più bravo di me, è stato uno dei più grandi editor della letteratura italiana degli ultimi cinquant’anni. Era paziente, bravo ad ascoltare”.
Sta cercando di essere diplomatico?
“Sto cercando di riparare al disastro che questa intervista procurerà alla mia carriera”.
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