DeLillo il predicatore
“Il silenzio”, la sua ultima fatica, è un pretesto per raccogliere le intuizioni da oratore religioso e drammaturgo che giudica le paure profonde e il disorientamento dell’occidente contemporaneo
"In uno stato di crisi, i fatti veri sono sempre quelli affermati dagli altri”. È una frase tratta dal Rumore bianco di Don DeLillo, e oggi potrebbe fare da epigrafe a quasi tutti i dibattiti di attualità. È anche una buona definizione del tema principale di quella letteratura postmoderna che mette in scena un mondo in cui le dicerie e i complottismi più folli tentano di colmare il vuoto lasciato dalle grandi narrazioni ideologiche, che a loro volta avevano surrogato le fedi religiose. Rumore bianco è uscito nel 1984, anno perfetto per pubblicare una “distopia realistica”. Siamo in una cittadina universitaria statunitense, avvolta nel rumore di fondo di tv e supermercati. Malgrado non sappia il tedesco, il narratore Jack Gladney ha fatto carriera fondando un dipartimento di studi hitleriani. Ma nel campus sono molti i corsi improbabili: il professor Murray prova addirittura a inaugurare un filone di ricerca su Elvis Presley, e altri ordinari a caccia di pascoli accademici interpretano ormai soltanto “le scatole dei cereali”. Aperto da questa satira dell’università che insegue il pop e dà il suo contributo grottesco all’industria dell’Olocausto, il romanzo si trasforma rapidamente in una contemplazione della morte. Per un incidente misterioso, sulla cittadina si addensa una nube tossica di cui nessuno sembra conoscere la natura e il grado di pericolosità. Dopo che Jack vi si è esposto senza protezione, gli esperti lo avvisano che la malattia è entrata nel suo corpo, e aspetta di svilupparsi in un tempo indefinito. Mentre gli cresce dentro l’ossessione ipocondriaca, il docente scopre che la moglie Babette ha fatto da cavia nella sperimentazione illegale di un farmaco che dovrebbe inibire la paura della morte, presente in lei a uno stato purissimo, e nel tentativo di procurarselo imprime alla trama una torsione splatter.
Ho riaperto Rumore bianco mentre leggevo Il silenzio, la nuova parabola apocalittica di DeLillo, dove si immagina un collasso delle tecnologie informatiche. L’autore è evidentemente attratto dall’idea di una catastrofe enigmatica e ovattata, nella quale il rapporto tra le cause e gli effetti rimane indecifrabile. Il male è per lui una radiazione di fondo, qualcosa di inesorabile ma anche di inavvertibile nella sua portata. Qualcosa di più oscuro della pandemia, insomma, che nel 2022 in cui è ambientato Il silenzio viene ottimisticamente confinata al passato prossimo. All’inizio incontriamo una coppia matura e agiata che sta tornando in aereo a New York dopo una vacanza a Parigi. Jim legge le informazioni di volo, e Tessa, che scrive versi, prende appunti sul viaggio appena concluso. Intanto Max e Diane, nel loro appartamento di Manhattan, li aspettano davanti alla tv sintonizzata sul Super Bowl insieme a Martin, un ex studente di Diane, che è stata professoressa di fisica (l’identità delle donne, allegorie delle due culture, appare più marcata di quella dei mariti). Poi l’aereo perde quota, ed è costretto a un atterraggio di fortuna; nello stesso istante, a Manhattan la tv si spegne. Anche i cellulari smettono di funzionare; e non solo quelli di Max e Diane. Nel loro palazzo, la gente inizia a fare capolino sui pianerottoli. I “tossicodipendenti digitali” devono per forza alzare gli occhi e guardarsi. Per la prima volta i vicini di casa sono davvero vicini. Le porte delle abitazioni “nella loro natura di strutture a pannelli, divennero il principale argomento di conversazione, meritavano descrizioni accurate”. C’è chi scende in strada, dove presto si raccolgono piccole folle in sommossa. E iniziano ad affiorare le ipotesi più varie sull’origine del blackout. È un incidente? Un sabotaggio cinese? È la Terza guerra mondiale? Il collasso riguarda solo l’isolato? O la città? O il pianeta? Tutto può essere, niente è verificabile. Come succede spesso, un evento eccezionale porta alla luce la verità implicita della routine: mostra limpidamente, cioè, che in una società ipermediatizzata si vive più che mai “per sentito dire”.
E adesso, svanita la diceria dell’infosfera, restano quelle dei capannelli o dei labili nuclei familiari che sembrano raccolti attorno a un fuoco spento, profughi in casa loro come lo erano i protagonisti di Rumore bianco chiusi in macchina a divorare junk food: una somma d’individui soli alla disperata ricerca di un calore che hanno disimparato a dare e a ricevere. Prima di raggiungere l’appartamento degli amici attraverso i viali bui della metropoli, Jim e Tessa fanno l’amore nel bagno di una clinica dove lui viene medicato per una ferita dovuta all’atterraggio brusco. Davanti allo schermo nero della tv, Max si mette a inventare la cronaca della partita imitando persino gli intervalli pubblicitari, con una verve che la moglie non gli ha mai visto neppure sotto l’effetto dello scotch o della marijuana. Come Babette in Rumore bianco, Martin confessa di assumere un farmaco e s’interroga sulle sue paranoie in proposito, ma soprattutto si esibisce nell’imitazione di Einstein, con un travestimento identitario che ricorda quello del decano degli studi hitleriani nel romanzo dell’84: se così il ragazzo si difende dalla vita, il professor Gladney tentava di allontanare la morte schermandosi dietro quel suo insuperabile araldo che è il dittatore nazista (in DeLillo la cultura tedesca è rifugio e minaccia). Come i personaggi di Rumore bianco, Martin elenca poi una serie di termini legati alla tecnologia e alla geopolitica, ripetendoli con la sua ospite finché diventano puri suoni: violazioni di dati, controsorveglianze, criptovalute, microplastiche, droni… Le parole galleggiano nel vuoto, si scindono dai significati: non a caso a un certo punto Diane cita una frase di Finnegans Wake.
Questa riduzione della lingua a stordita formula magica è la difesa di chi viene lasciato solo e inerme davanti a qualcosa di immenso, a una realtà che se presa in considerazione razionalmente lo annienterebbe. In Rumore bianco si ipotizzava che la famiglia fosse “la culla della disinformazione mondiale” per una sua spontanea strategia di sopravvivenza, dato che i fatti veri le sono ostili. Quando fuori incombe un pericolo indefinito e terribile, l’idea di informarsi risulta irrealistica e paralizzante: si è frustrati dalla sproporzione tra la propria esperienza di vita e il carattere esoterico del sapere. Così “più grande è il progresso scientifico, più primitiva la paura”: una paura che si scaccia o con la rimozione, o con dei gesti apotropaici in cui riemergono eredità ancestrali. Quando suonano le sirene antiaeree e la gente non sa se fuggire dalla cittadina, Jack e i suoi famigliari, riuniti a tavola, continuano a mangiare “stando attenti a non far rumore con le posate”. “Credo che fra noi sia aleggiata la vergognosa speranza che soltanto così avremmo potuto evitare di venire notati”, commenta il narratore: sono uomini primitivi che scongiurano il fulmine. Del resto, perché mettersi ora a ponderare i pro e i contro, visto che non si è stati capaci di scuotersi dall’ignavia in una vita quotidiana in cui pure si era circondati da veleni potenzialmente letali? “Ogni giorno nelle notizie compare un’altra sostanza tossica traboccata da qualche parte” tira le somme Babette.
“Solventi cancerogeni dai loro contenitori, arsenico dalle ciminiere, acqua radioattiva dalle centrali elettriche”. Si ribadisce da ogni parte che la situazione è grave. Ma “come può essere una cosa grave, se succede di continuo? La definizione di evento grave dovrebbe basarsi proprio sul fatto che non si tratta di una cosa di tutti i giorni, o no?”. “I pericoli a ogni livello. Mangia, bevi, investi. Respira, inala, incamera ossigeno nei polmoni. Cammina, corri, fermati”, incalza Martin nel Silenzio. Se le cose stanno così, se l’emergenza è sciolta come una pillola nel giorno più normale, in che modo si potrà fronteggiare una vera apocalisse? Come si fa a crederci? E come la si distingue dall’allarme perenne? Chi vive sotto troppe minacce, assuefatto all’impotenza, sviluppa delle reazioni patologiche. In Rumore bianco, ancora più di quelle di Jack e Babette, sono interessanti quelle dei figli. Appena dai media o dai discorsi dei genitori le arriva notizia di qualche sintomo, l’ipocondriaca Steffie se lo sente subito addosso, finché diventa impossibile stabilire se ciò che prova dipende da una causa esterna o dalla sua suggestionabilità senza confini. In Heinrich l’estremismo passa invece per una requisitoria razionalistica in apparenza inconfutabile. Heinrich vuole costringere gli adulti ad ammettere che qualsiasi scenario apocalittico può concretizzarsi, e rinfaccia al padre l’ignoranza colpevole delle loro esistenze. “Siamo nell’Età della pietra: conosciamo tutte le cose che sono state prodotte da secoli di progresso, ma che cosa sappiamo fare per rendere più agevole la vita di questa Età?” gli domanda. “Sappiamo forse fare un frigorifero? Sappiamo anche solo spiegare come funziona? Che cos’è l’elettricità? Che cos’è la luce? Sono cose che sperimentiamo ogni giorno della nostra vita, ma a che cosa serve tutto ciò se ci troviamo ricacciati indietro nel tempo e non siamo nemmeno in grado di spiegare alla gente i principi di base”.
Di questa incapacità danno una dimostrazione esilarante i dialoghi domestici, in cui galleggiano imprecise reminiscenze di geografia, fisica o storia. Li ritroviamo anche nel Silenzio, ma ridotti a poche battute e molto meno comici. Già all’inizio Jim e Tessa cercano di ricordare il nome di Celsius, s’interrogano sul significato di vitesse, ripetono meccanicamente i dati che appaiono veloci sugli schermi. E più avanti, come si è detto, le parole che esprimono l’attualità del ventunesimo secolo diventano mero flatus vocis nel monologo del giovane ossessionato da Einstein, a cui Diane fa da eco. Ma se le catastrofi (specie quando cancellano Google) lasciano emergere mostruose lacune culturali, o comunque una scissione malsana tra vita e conoscenza, al tempo stesso deresponsabilizzano chi ne viene investito: “Poiché eravamo stati strappati alla realtà, eravamo anche dispensati dal bisogno di distinguere” riflette Jack in Rumore bianco. La crisi rivela un istinto tipico di società troppo complesse nelle quali dominano sentimenti troppo rozzi: quello di delegare la responsabilità agli “altri”, a coloro che se non il know how hanno almeno il tono dell’esperto. Si è alienati da sé stessi, direbbe Illich. Non si sceglie in autonomia, anche perché scegliere significa inserirsi in una trama da cui non si può uscire a piacere, ossia, come osserva Gladney, entrare in contatto con la morte. E d’altra parte, è davvero possibile essere autonomi, avendo a disposizione solo un po’ di ragionevolezza? Dato il contesto, ogni tentativo in questo senso non implica forse una rimozione della complessità, e dunque il cedimento a un populismo velleitario?
Il fatto è che non si può sapere con certezza quali dati ci mancano per capire la situazione, e che peso hanno, né cosa gli altri sanno in più o in meno rispetto a noi. Si può solo dire che con alcuni esperti non può darsi un rapporto di parità: siccome il loro sapere non è traducibile in linguaggio comune, sfugge all’accountability. Di qui la reverenza superstiziosa che li avvolge. Il narratore di Rumore bianco adula i medici perché hanno un potere arbitrario; e il suo atteggiamento riflette insieme il terrore, la speranza, e il desiderio di essere sgravato dal fardello di una prova in prima persona. Ma la delega va più in là. Non credendo più nemmeno ai propri occhi, si ha bisogno che anche le esperienze più comuni vengano ratificate da qualcun altro. “Alla gente piace che le cose in cui crede vengano confermate” dice a un certo punto Babette per difendere la sua attività di coach. “Non stendersi dopo un pasto pesante. Non bere liquori a stomaco vuoto. Se si deve nuotare, aspettare almeno un’ora dopo aver mangiato. Il mondo è più complicato per gli adulti di quanto lo sia per i bambini. Noi non siamo cresciuti in mezzo a tutto questo cambiare di fatti e modi di pensare: un giorno è comparso e via. Quindi la gente ha bisogno che una persona autorevole la rassicuri, le dica se ciò che sta facendo lo fa in maniera giusta o sbagliata”.
Si potrebbe radicalizzare: la gente ha bisogno di sapere se ciò che fa è reale. Non lo considera tale senza una conferma esterna. E quando non la dà uno “scienziato”, questa conferma viene magari dagli ultimi rappresentanti della teologia. Alla fine di Rumore bianco, mentre medica il narratore, una suora tedesca gli spiega che il compito suo e delle sue sorelle è quello di recitare la parte di chi crede: “A mano a mano che la fede diminuisce in questo mondo, la gente trova sempre più necessario che ci sia qualcuno che crede”. Anche nel Silenzio incontriamo un’infermiera, o meglio una strana segretaria che alla clinica smista i feriti, e che tiene a sua volta una vera e propria orazione venata di autobiografismo. “Di qualunque cosa si tratti, quello che è successo ha messo fuori uso la nostra tecnologia” dice a Jim e a Tessa. “La parola stessa mi pare obsoleta, persa nello spazio. Dov’è la fede nell’autorità dei nostri device sicuri, delle nostre capacità di criptaggio, dei nostri tweet, dei troll e dei bot. Ogni cosa nella datasfera è soggetta a distorsioni o furti? E a noi non resta che starcene seduti qui e piangere per il nostro destino? (…) Più sono avanzati più sono vulnerabili. I nostri sistemi di sorveglianza, i nostri dispositivi di riconoscimento facciale, la risoluzione delle immagini. Come facciamo a sapere chi siamo? Sappiamo che qua dentro comincia a fare freddo”.
Anche la donna della clinica snocciola i termini chiave di un mondo semivirtuale che è diventato improvvisamente, crudamente fisico. È come se leggesse un editoriale che tenta di trasformarsi in un canto o in una preghiera. Ma non è questo lo stile stesso di DeLillo? L’autore ripete certe locuzioni con la smarrita voluttà dei suoi personaggi, puntando sul valore suggestivo delle parole “scientifiche”. Nelle sue frasi sghembe, ingombranti, le inserisce con l’imprecisione di chi non vuole conoscerne del tutto il significato: di qui l’alone quasi lirico. Si veda ad esempio come descrive il momento in cui a casa di Max e Diane si blocca il televisore: “Le immagini sullo schermo cominciarono a tremolare. Non era una normale distorsione del segnale: c’era un senso di profondità, forme astratte che si componevano per poi dissolversi secondo una cadenza ritmica, una serie di unità elementari che davano l’impressione di proiettarsi in avanti per poi retrocedere”. Più avanti, attraverso Martin, anche Einstein viene attirato nell’orbita delilliana, e avvertiamo che lo scrittore assapora ben più della sua creatura espressioni come “La forza esercitata dal campo” o “Linea di universo”. DeLillo sembra avere sempre in mente un’immagine di buio tagliato da bagliori e fosforescenze, da un’energia che deforma la visione. E’ un romanziere che tende paradossalmente all’astratto: e infatti sia in Rumore bianco che nel Silenzio, come del resto in buona parte degli altri suoi libri, insiste di continuo sulle atmosfere oniriche. “Quello a cui stavamo assistendo non era un evento storico. Era qualcosa di segreto e suppurante, un’emozione sognata che segue il sognatore anche dopo il sonno” annota Jack Gladney davanti alla nube tossica. E in una specie di intermezzo apertamente saggistico a metà del Silenzio si trova una domanda significativa: “non è strano il fatto che certi sembrino aver accettato questa sospensione, questo guasto? Forse è qualcosa che hanno sempre desiderato a livello subliminale, subatomico?”.
Forse il desiderio subconscio di disfarsi di un mondo in cui tutto è chiacchiericcio e allarme è stato così forte da partorire la catastrofe. Nel Silenzio questo vecchio tema è squadernato, ridotto all’osso, e privato del corpo descrittivo del DeLillo più monumentale. Così anche i suoi difetti ci fanno capire meglio la vocazione più autentica dello scrittore. Malgrado la forza che hanno certe singole scene e certi dialoghi, si ha infatti l’impressione che per DeLillo il romanzo sia quasi un pretesto, il collante provvisorio attraverso il quale raccogliere le proprie intuizioni: e sono piuttosto intuizioni da oratore religioso, da aforista o da drammaturgo che giudica le paure profonde, il disorientamento semeiotico dell’occidente contemporaneo. In Rumore bianco, come altrove, i punti deboli erano l’orchestrazione della trama e il tentativo di oggettivare le riflessioni negli elenchi prolissi di oggetti, nei ritornelli pubblicitari, in un’oscillazione non sempre ben regolata tra satira e metafisica. Nel Silenzio, invece, DeLillo si è disfatto di questi riempitivi, ma ahimè anche delle scene più memorabili e ipnotiche delle sue opere maggiori. Resta così il traliccio di un predicatore gnostico, che per dire ciò che gli preme ci propone un “esempio” narrativo. E l’argomento è sempre lo stesso: la crescita simultanea di tecnologia e riflessi primitivi. Le radici dell’impotenza, dell’angoscia e del complottismo stanno infatti in “un eccesso di cose generato da un codice sorgente troppo limitato”, cioè nelle troppe mezze verità e mezze bugie di un sistema informativo saturo, che quando implode lascia le persone alla mercé di qualunque stimolo, e senza più le risorse psicologiche o pratiche delle epoche premoderne. Nel nuovo libro di DeLillo, della reattività degli esseri umani rimangono pochi cenni subito inghiottiti dalla notte, subito spenti come gli schermi dei device che somigliano di colpo a un quadrato di Malevic. Immobili come statue, i personaggi sono costretti a fronteggiare il silenzio, vale a dire ciò che oggi più temiamo e più desideriamo.