spazio okkupato
Il fuoco di Flannery O'Connor
Una delle più grandi scrittrici del Novecento. Americana, un'esistenza segnata dalla malattia, ha raccontato la varietà dell'umano, la violenza e il fervore della religione
C’è questa cosa dei libri, quando li leggi ma ancora di più quando li traduci, che all’improvviso possono avvicinarti a chi scrive e farti provare la sensazione di abitare nella testa di gente gigante. E’ un po’ come giocare a scacchi con José Capablanca o a pallone con Marco Van Basten. Perché quando l’immaginazione si rivela attraverso le parole, tradurre quelle stesse parole nella propria lingua significa condividere l’immaginazione che le ha generate, replicarne i processi, i ritmi invisibili e la struttura segreta. Uno fa la sua vita, va dal panettiere o porta giù il cane, e poi trascorre intere giornate in compagnia – o dentro la testa – di John Cheever o James Joyce. Gaja Cenciarelli, ultimamente, ha passato molto tempo in quella di Flannery O’Connor, una delle più grandi scrittrici del Novecento, per cui ha tradotto il romanzo Il cielo è dei violenti e l’antologia Un brav’uomo è difficile da trovare, entrambi per minimum fax. “In effetti stiamo insieme da prima del lockdown”, dice Cenciarelli, “era il settembre 2019. All’inizio entrare nella sua testa è stato difficilissimo, poi ci siamo registrate. Adesso traduco La saggezza del sangue che devo consegnare il 15 giugno altrimenti mi crocifiggono, malgrado gli scrutini e l’immenso delirio che è stata la scuola quest’anno” (Cenciarelli insegna, evidentemente).
La prima sorpresa, leggendo la cronologia all’inizio dei libri, è che Flannery O’Connor è più giovane di un anno di Eugenio Scalfari: nata il 25 marzo 1925 a Savannah, Georgia, lei; il 6 aprile 1924 a Civitavecchia, Lazio, lui. I confini del contemporaneo non dipendono soltanto dalla distanza nel tempo, ma anche dalla prossimità nello spazio. La grandezza di O’Connor – che morì a 39 anni dopo un’esistenza solitaria segnata dal lupus, una terribile malattia autoimmune – consiste in un equilibrio unico tra distacco e prossimità, tra umorismo e pietà. “E’ una cosa evidente in quello che secondo me è il racconto più bello del secolo insieme a I morti di Joyce: Un brav’uomo è difficile da trovare” dice Cenciarelli. Tutti i racconti, ambientati nel sud degli Stati Uniti negli anni Trenta del Novecento, sono popolati di esseri umani sghimbesci che sembrano intrappolati nelle loro vite come insetti nell’ambra. E’ un mondo in cui ci sono buoni e cattivi, ma dove nessuno è innocente. “E’ verissimo, e credo che dipenda dal suo cattolicesimo” dice Cenciarelli, “il marchio del peccato originale ce lo portiamo dentro tutti sempre, vittime e carnefici”.
La distinzione tra vittime e carnefici, prede e cacciatori, combacia con quella di genere. Quello di O’Connor è un mondo dove i maschi o sono scialbi o sono feroci, e le donne sono più intelligenti, ma non abbastanza da non esserne vittime. Ma questa violenza, che può essere atroce, non si traduce mai nei racconti in un giudizio morale, in una dichiarazione di ingiustizia. La ragazza ritardata di La vita che salvi può essere la tua, quella con la gamba di legno di Brava gente di campagna, la vecchia che non la smette mai di parlare, neppure all’assassino, di Un brav’uomo è difficile da trovare incontrano uomini di cui diventano vittime nell’istante stesso in cui si fidano di loro credendo di poterli dominare. L’altro crinale è quello tra bianchi e neri, o Negri come scrive O’Connor che per questo è stata accusata di razzismo. Una parola che oggi è intraducibile. Dice Cenciarelli: “Me la sono trovata a riga 3 del Cielo è dei violenti, con la N maiuscola, ed è una parola che per me, non lo dico per posa, più che intraducibile, è impossibile da scrivere. Ma mi sono detta chi sono io per tradurre d’imperio ‘nero’ o ‘di colore’? Quella era la sua sensibilità, il suo mondo. E’ un caso in cui il traduttore alza le mani e s’arrende. Ma per lei i neri sono passivi, ma anche sornioni, sanno che tutto andrà a finire male perché forse riconoscono meglio dei bianchi la natura del mondo”.
I personaggi che O’Connor fa sfilare – maschi e femmine, bianchi e neri, buoni e cattivi – appaiono vivi come sono vive le trote, i lupi e le mucche in un pascolo. Hanno desideri e bisogni, cedimenti improvvisi e inspiegabili crudeltà, ma sono tutti capaci, anche i cattivi, di frasi o gesti indimenticabili. Il vagabondo che al tramonto si presenta alla veranda di una vecchia e sua figlia e dice “con una voce nasale ma ferma”, “‘darei una fortuna per vivere dove si può vedere un sole che fa così tutte le sere’”; il balordo che agisce per dovere perché sa che “nella vita non esiste il piacere”; e il bambino che per solitudine decide di battezzarsi da solo in un fiume. Il male è onnipresente e ineluttabile, ma per O’Connor il criterio morale non dice niente del mondo perché non coglie quello che è davvero interessante dei vivi: osservarli vivere. Il male trionfa, ma non può cancellare la mirabolante varietà umana. “A me l’empatia è scattata quando ho letto che, da fervente cattolica, pregò Dio di essere la sua macchina per scrivere. Era malata e sapeva di dovere morire, ma non gliene fregava. Voleva solo scrivere”. O riscrivere il mondo che, per lei, Dio aveva creato.